Anche lo spettatore più diffidente, che non abbia mai visto l’opera di Giordano in teatro, ma conosca solo la fama «truculenta e d’appendice» della commedia di Sem Benelli che ne sta alla base, può sobbalzare già al primo alzar di sipario, dietro il quale pure l’opera debuttò. Intanto per la musica, che certo è lontana anni luce da quella che uno lega normalmente agli inizi del ’900 (Strawinski primo tra tutti), anche se ovviamente si rintracciano chiari i legami con l’opera verista. Ma soprattutto perché dopo pochi minuti di ascolto si compie una sorta di miracolo dovuto alla regia di Mario Martone e alla scenografia di Margherita Palli (che torna alla Scala dopo tanti trionfi condivisi con Luca Ronconi).

Il regista infatti ha spostato, pur rispettando scrupolosamente partitura e libretto, decisamente l’ambientazione. Addio scenari fiorentini, rive traditrici d’Arno, fughe a Pisa, e tutto il feuilleton dei vezzi fiorentini di inizio secolo: qui la casa che ospita La cena delle beffe è vista nei suoi interni ed esterni, e nei diversi piani che si sovrappongono (restituendo improvvisamente al dramma la sua unità aristotelica): un ristorante di New York, sulla Bowery, o ancor più dentro a Little Italy. Come in film corposo e violento di Martin Scorsese. Un edificio a tre piani con il suo mattonato a piastrelle; semplici e funzionali l’arredamento e la planimetria, ma già pronti a prenotare brividi di paura per eventuali inseguimenti o nascondigli.

Su e giù per le antiche scale, perché di quella costruzione, grazie alle tecnologie «verticali» di cui la Sala si è dotata nei restauri firmati da Botta, si vedranno lungo il racconto ben tre piani: il ristorante al pian terreno che ospita la riunione del titolo; il seminterrato violento che fa di ogni basement un teatro di crudeltà, e il piano superiore delle camere, in particolare quella da letto della bella Ginevra, burattinaia e vittima di quella giostra d’onore, prima ancora che di sesso (anche se i corpi restano percorso principale per lo sviluppo tragico della vicenda). Mentre dalle finestre entrano i muti echi di fuori, come il neon dell’insegna «hotel» che firma al cinema ogni giallo che si rispetti.
Perché è il cinema, evidentemente che ci restituisce il piacere oggi di quella Cena delle beffe.

Testo eccessivo e paradossale se ambientato nei quartierini fiorentini. Tanto che solo Carmelo Bene ha osato nel dopoguerra riprendere in scena il testo di Benelli (la prima volta, anni 70, chiamando al ruolo del rivale Gigi Proietti), fortemente affascinato da quella teatralità «oltre» le norme e i ruoli, che certo permetteva solo a lui (e alla compagnia D’Origlia-Palmi, a quell’epoca ormai in stato di consunzione avanzata) di servirsene su un palcoscenico.

Martone usa invece la citazione cinematografica: se ne giovano i cantanti che trovano spessore nuovo ai ruoli, e forse anche la stessa partitura, che risuona ora potente ed efficace, come i molti noir che avrebbe potuto accompagnare, senza nulla di cui imbarazzarsi.