«È ormai un dato di fatto che il cancro si può curare completamente con la soluzione antitumorale del Professor Beard dell’Università di Edimburgo, Inghilterra. (…) Il Sanatorio Temperley è l’unica struttura autorizzata dal dottor Beard per l’applicazione di questo trattamento nella Repubblica Argentina». Un annuncio di questo genere può far pensare alle innumerevoli cure miracolose che oggi si annidano negli anfratti di internet, ma è apparso sulla rivista Caras y Caretas (una specie di Domenica del Corriere argentina) nel lontano 1907, e se vale la pena di ricordarne le cialtronesche promesse è perché, dopo averla ritrovata in chissà quale archivio, lo scrittore e sceneggiatore Roque Larraquy ne ha preso spunto per il suo romanzo La madrivora, tradotto in diversi paesi, candidato al National Book Award nel 2018 e appena arrivato in libreria per le edizioni Alter Ego nella brillante versione italiana di Carlo Alberto Montalto (pp. 168, euro 15).

INSIEME A Rapporto sugli ectoplasmi animali di Buenos Aires (Gallucci 2016) e al recente La telepatía nacional (Eterna Cadencia, 2020), La madrivora fa parte di una sorta di trilogia e conferma il talento di un autore che in poco più di un decennio ha coerentemente sviluppato una narrativa inconfondibile, ambientata ai primi del novecento e connotata da una satira feroce delle pseudoscienze e di una destra inquietante e oscura, di cui assume il punto di vista per meglio demolirlo attraverso finzioni tanto più grottesche e umoristiche quanto più asciutta è la voce narrante.

A raccontare le stupefacenti vicende del Sanatorio è il cinico dottor Quintana, che con le sue annotazioni secche e precise, alterate a tratti dall’esaltata passione per la capo infermiera, ci introduce in una comunità di medici pronti a tutto, sia per l’ansia di verifica ereditata dal positivismo, sia per gli incentivi proposti dal proprietario inglese della clinica e dal suo direttore, cui si deve l’idea di servirsi dell’annuncio su Caras y Caretas per attirare una folla di soggetti da sottoporre a un esperimento ispirato alla querelle des têtes tranchée, che dopo l’avvento della ghigliottina imperversò nella Francia del diciottesimo secolo. Ed è sempre sua la decisione di reclutarli tra le classi popolari, abbastanza «invisibili» e socialmente irrilevanti da garantire al Sanatorio l’ immunità necessaria.

PARTENDO DALL’IPOTESI, formulata per primo dal medico tedesco Sömmerring, che le teste appena mozzate restino in vita per nove secondi e siano in grado di pronunciare una frase, i medici di Temperly ricorrono a una sofisticata ghigliottina per catturare le eventuali parole postume e scoprire cosa c’è «oltre la soglia»; i corpi, residui senza importanza, vengono poi rapidamente eliminati grazie alla madrivora, un vegetale che genera larve pronte a divorare qualsiasi cosa, compresa la pianta da cui provengono. Ed è quasi inutile sottolineare come l’insistenza nell’ottenere una «confessione» finale dai corpi sacrificati, e ancor più il modo di smaltirli senza lasciare tracce, facciano intravedere (forse al di là delle intenzioni dell’autore, dichiaratamente ostile a qualsiasi allegoria) un’immagine non troppo sfocata della strage compiuta dalla dittatura negli anni ’70.

La congiunzione tra la narrativa e le versioni più improbabili e spericolate della scienza è piuttosto frequente nella narrativa argentina, e la critica non ha mancato di citare, a proposito dell’opera di Larraquy, autori come Holmberg, Lugones, Quiroga, il Bioy Casares di Dormire al sole, il César Aira di El congreso de Literatura e, non ultimo, il José Pablo Feinmann di Il cadavere impossibile.

MA IL RIMANDO a una ben individuata tradizione letteraria sottolinea, invece di appannarla, l’originalità di La madrivora, che pur non inscrivendosi nel fantastico elude ogni vincolo col realismo grazie a una netta intonazione comica e all’efficace parodia del nazionalismo più arrogante e delle peggiori scelte di una scienza che rinuncia a curare per sviluppare, invece, tecniche tanatologiche asservite al potere, o dettate da una hybris sconfinata (lo facciamo perché possiamo e perché ci è venuto in mente per primi, dicono i medici del Sanatorio).
Sulla prima parte del romanzo si innesta poi un secondo racconto collocato nel nuovo secolo, che si affida alla voce di un bioartista argentino ossessionato dall’idea di trasformare sé stesso in una celebrata e costosa opera d’arte, senza arretrare davanti alla manipolazione estrema del corpo proprio e altrui: non esiterà, infatti, a trasformarsi chirurgicamente nel sosia del suo socio e complice, sulla scia di Liberace e della coppia Lady Jaye-P.Orridge, e convincerà l’ex amante Sebastián a lasciarsi divorare una gamba dalla madrivora per amore dell’arte e la gloria dell’Argentina.

TRA L’ESPOSIZIONE di bambini con due teste e di mobiles costruiti con mani rubate alla morgue (il titolo della macabra opera è «Le mani di Perón»), la critica di Larraquy al connubio tra arte e mercato si fa spietata, collegandosi abilmente al delirio pseudoscientifico della prima parte attraverso elementi come la recuperata madrivora, l’identità di Sebastián – bisnipote del dottor Quintana e custode dei suoi scritti – e il leitmotiv di frasi e parole chiave che trasmigrano dal diario del 1907 al racconto di un secolo dopo, acquistando nuovi significati.
La connessione tra i due episodi, però, sta soprattutto nella centralità di corpi sostituibili all’infinito, merce «a perdere» che la sperimentazione scientifica o artistica trasforma in materia prima e infine in scarto. Al di là della comicità provocatoria e delle allusioni storiche, politiche e culturali che il lettore potrà, se crede, individuare una per una, quel che più seduce in La madrivora è comunque l’equilibrio tra contenuto e forma, capace di stabilire un dialogo ineccepibile tra passato e presente e di insinuarvi una riflessione etica e politica che non interferisce con i tempi perfetti del racconto, ma che indubbiamente si oppone a una lettura affrettata e superficiale.