È subito chiaro in American Sniper che ad essere messo in questione è la posizione dello sguardo, nonché la sua responsabilità, e ancora: che cosa sia giusto vedere, come mirare giusto non tanto rispetto a un nemico presunto, che nel film assume continuamente lo statuto contraddittorio del nesso visibilità/invisibilità, rovesciando, quasi nonostante l’apparenza paranoica di implicare una costruzione del nemico, quel nesso nei confronti di se stessi, del ‘corpo che spara’ che nello stesso tempo è il ‘corpo che gira’ (evidente l’assimilazione tra to shoot come sparare e to shoot come girare, di diretta derivazione fulleriana). Non è tanto il nemico esterno quanto il nemico interno, la cattiva coscienza e il senso di colpa americano, la paranoia del ‘salvare’ e del ‘salvarsi’, la contraddizione, il crisma, connesso allo ‘spirito di sacrificio’, all’iperprotezione (inoculata e introiettata dal ‘nome del padre’ come è  esplicitato nel pranzo di  famiglia di Chris, in cui il destino ’cristico’ di eroe sacrificale e di ‘salvatore’ inscritto nel suo nome gli viene  come marchiato nello sguardo). Tale l’introiezione della funzione scopica, del mirino, che viene come incorporata  dalla pelle e dal respiro di Chris: ogni volta che si inquadra (e insieme si raddoppia l’inquadratura, si re-inquadra) la vittima è il respiro affannoso di Chris che sentiamo, ed è un respiro che ci racconta molto più del suo essere vittima predestinata (della propria stessa leggenda, del proprio stesso nome, e insieme di tutta la paranoia salvazionistica dell’America) che della sua mira di carnefice. Quel respiro è anche l’angoscia di essere inquadrati mentre si inquadra, di essere visti mentre si vede, spiati mentre si spia, presi di mira mentre si viene presi di mira. Ecco allora che emerge a poco a poco una figura tipica del cinema di Eastwood: il doppio/fantasma/senza nome. È l’altro cecchino, cui genialmente il film conferisce lo statuto di ‘nemico interiore’, di doppio persecutorio (come nel miglior ‘perturbante’ freudiano connesso al vedere, all’essere spiati, al timore di essere cavati gli occhi, come nel Mago Sabbiolino di Hoffmann). Il ‘fantasma’ venuto dal nulla è sempre per Eastwood l’«altro senza nome», una sorta di funzione anonima e invisibile del vendicatore che prende improvvisamente parvenza, anche nei grandi western eastwoodiani (e in American Sniper, il western è continuamente invocato dai rodei, dal Texas, dai cavalli, dai fucili, dal chiamarsi ‘cowboy’) . Comprendiamo a poco a poco come Chris, detto ‘Leggenda’, sia destinato a soccombere alla sua stessa leggenda, ad essere fulminato, eliminato, ‘guardato/ucciso’da un ulteriore doppio, dacché il primo doppio pensava di averlo sconfitto, dunque introiettato, nel ‘duello’ a distanza, di tipo western, in cui la mira giusta colpisce (con un ‘colpo’, un ’proiettile’, che è anche un movimento di proiezione, un movimento di macchina in ‘falso ralenti’, sorta di omaggio a Sergio Leone) il proprio riflesso nascosto (che solo i propri occhi possono vedere, perché alligna ‘proprio’ nei propri/nostri occhi). Questo doppio che sbuca fuori, ancora dal nulla, alla fine del film è, ancora più evidentemente, un altro se stesso, anzi un ‘fantasma collettivo’, il fantasma del senso di colpa e dell’immaginario ossessivamente espiatorio e istericamente allucinatorio dell’America: un reduce disturbato che in qualche modo riproduce  il disturbo visivo-auditivo di Chris, che quando ritorna ‘vede e sente altro’. Durante una festa di bambini la ‘posizione dello sguardo’ è spostata, è ancora scartata ‘a distanza’, Chris sente i rumori allucinatori della battaglia e noi vediamo i suoi occhi che ‘vedono altro’, eppure non vediamo più questo «altro» minaccioso che si nasconde dietro il suo sguardo. Qual è allora la giusta distanza, la giusta mira, l’aggiustamento dello sguardo, la messa a fuoco, un mirare giusto che possa stabilire relazione, procurare incontri, confrontare situazioni della memoria, modi di stare dentro e fuori di sé, in un territorio di riconoscimento e non di misconoscimento? È una domanda sulla guerra, è una domanda sul cinema, è una domanda su se stessi e sull’altro da se. «Moi je suis un autre» diceva Rimbaud, ed è ciò che a Chris è precluso, è nascosto alla vista, è oggetto-soggetto di misconoscimento (proprio perché si vuole a tutti i costi ‘salvare’ l’altro non in quanto altro, ma in quanto rassicurantemente simile a sé, salvo scoprire che quell’altro è ‘il sé’, il ‘come-se’ pur restando irriducibilmente altro). Nessuna mira infallibile può riconoscere ciò. È se stesso come fantasma americano, come ‘leggenda americana’ che Chris cerca di prendere di mira, misconoscendosi. Da subito questo movimento di rinculo (tipico del calcio del fulcile, del rimbalzo dello sparo) è evidente, da subito è applicato al ‘corpo del film’, come al corpo stesso del soldato americano. Le spalle nude, nella scena del bar all’inizio, diventano un mirino, e i tiratori scelti, i cecchini sono gli stessi commilitoni. L’inquadrare il bambino con la bomba all’inizio, il prendere la mira, la sospensione (vitale e mortale insieme) del respiro viene ad essere incorporato dal montaggio stesso del film. Il film sembra iniziare ma poi si sospende e riinizia dalla stessa sequenza di inquadrature. Un bambino sta per essere ucciso e, con uno stacco che è un ‘ritorno a casa’ nel tempo, un altro bambino (se stesso bambino, come a dire che quel bambino iracheno era se stesso, ‘moi, un autre’) spara a un cervo (come in un doppio Minnelli: A casa dopo l’uragano  e Castelli di sabbia). È un ‘falso inizio’ che fa da lungo interludio: è ‘a casa’ in Texas che comincia tutto: genealogia di un addestramento, di una iniziazione, di un genocidio, di un sacrificio (‘pedagogia di un eroe’ come ha scritto Edoardo Bruno sul nuovo numero di Filmcritica). Dopo di che il film ritrova il suo inizio nello sparo sul bambino. Ma chi è la vittima e chi il carnefice? Oppure siamo tutti insieme, implicati nel film, vittime e carnefici del nostro sguardo, dannati e salvati nei ‘turni’ in cui è suddiviso il film. Mi viene da dire: ‘turni/tournage’: andata-ritorno ‘a distanza’ sui set, sui ‘teatri di guerra’. Ed è ‘dopo la tempesta’ di sabbia, dal deserto a casa, da casa al deserto, e così via, laddove ‘più niente è possibile vedere’, e l’intera inquadratura è obnubilata dalla polvere (sabbia e sparo), oppure laddove, come nella citazione di San Paolo, ‘vedremo faccia a faccia e non più come nell’enigma di uno specchio’, che tutto ‘si compie’ e nello splendido finale, tutto è rovesciato (come nei ‘mirini’ del Salò pasoliniano): ed è, letteralmente, il funerale della ‘Leggenda Americana’.