I tatuaggi, evidenti nei suoi autoritratti (incluso Self Portrait – Nursing del 2004 mentre allatta il figlio Oliver, esposto recentemente nella mostra milanese La Grande Madre curata da Massimiliano Gioni) sono celati sotto gli indumenti invernali che Catherine Opie (Sandusky, Ohio 1961, vive e lavora a Los Angeles) indossa in questo freddo gennaio newyorkese.
La fotografa, nota per le sue indagini intorno al tema dell’identità, attivista fin dagli anni Novanta a sostegno della comunità Lgbt a cui appartiene, presenta nelle due sedi della galleria Lehmann Maupin – a Chelsea e Lower East Side – le più recenti declinazioni del suo linguaggio artistico: Portraits and Landscapes e 700 Nimes Road (fino al 20 febbraio).

Catherine Opie,
“Fang and Chanel” from the “700 Nimes Road Portfolio”, 2010-11

Alle radici della sua formazione (già a nove anni inizia a fotografare e a quattordici si costruisce la camera oscura nel bagno di casa) c’è la lezione di Hank Wessel (Henry Wessel Jr.), imparata frequentando il San Francisco Art Institute dove si laurea nel 1985. Wessel era sostenitore della visione Szarkowskiana di una fotografia strettamente connessa con la società e la sua cultura che, diversamente dal fotogiornalismo, diventa lo specchio del mondo attraverso la metafora. Successivamente, studiando alla CalArts con artisti come Catherine Lord, Allan Sekula e Krzysztof Wodiczko, Opie si avvicina alla fotografia concettuale che coniuga con la sua idea di fotografia documentaria.

Le due mostre newyorkesi, che precedono quella dell’Hammer Museum di Los Angeles (appena inauguratasi, sarà visibile fino al 22 maggio) e la retrospettiva all’Henie Onstad Centre di Oslo (settembre 2017), mettono a fuoco un percorso in cui l’aspetto intimistico rimane prioritario nella ridefinizione dello stereotipo. Nei ritratti, in particolare, Catherine Opie ribalta l’iconografia tradizionale svelando, attraverso la teatralità del chiaro-scuro, la vulnerabilità degli individui che posano, sebbene con grande naturalezza, davanti alla macchina fotografica.
Un aspetto del sublime che viene intercettato nell’astrazione dei paesaggi americani, spazi mentali che mantengono una loro definizione geografica. 700 Nimes Road (il portfolio del 2010-2011 è il soggetto dell’omonimo libro pubblicato da DelMonico Books/Prestel) è, infine, il ritratto di Elizabeth Taylor attraverso il racconto dei suoi spazi privati, la villa di Beverly Hills con tutti i ricordi che contiene. Entrando in punta di piedi nell’intimità della star hollywoodiana si percepiscono gli estremi di fragilità e forza di un mondo costruito sull’apparenza. Ci sono le foto incorniciate che la ritraggono con Michael Jackson, le tonalità pastello che lambiscono oggetti quotidiani – il gatto che passeggia tra le serie di scarpe Chanel che variano solo per tonalità o gli stivali da cowboy ingentiliti da messaggi universali tipo Peace & Love – che possono essere anche preziosissimi e continuare a brillare nella loro custodia di velluto, in una dimensione sospesa tra favola e leggenda. Come quella collana realizzata da Cartier nel 1972 e donata da Richard Burton a Liz per il suo quarantesimo compleanno: il diamante a forma di cuore risale al XVII secolo e fu, a sua volta, donato dall’imperatore Moghul Shah Jahan alla sua seconda moglie, Mumtaz alla cui memoria è stato innalzato il Taj Mahal.

Catherine Opie, (Courtesy Regen Projects, Los Angeles and Lehmann Maupin, New York)
“Kitchen Table” from the “700 Nimes Road Portfolio”

Come nasce il lavoro «700 Nimes Road»?
Il contatto con Elizabeth è nato da una coincidenza: avevamo il commercialista in comune. Quando ho iniziato il lavoro, nel 2010, non avevo idea che lei sarebbe morta di lì a poco, così è diventato un ritratto che è anche l’ultimo della sua vita. È cambiato il punto di vista. Mi interessava molto come, lentamente, questo lavoro abbia acquisito una sua narrativa. Nella casa sono stata in tutto sei mesi, tre prima della morte e tre dopo. Poi c’è voluto il tempo per fare l’editing.

Cosa hai provato quando sei entrata per la prima volta nella casa di Elizabeth Taylor?
Oh mio dio, mi sentivo così nervosa! Sedevo sul bordo del divano, perché avevo paura perfino di poggiare le spalle sui cuscini. Era così strano che mi trovassi proprio nella casa di Elizabeth Taylor! Ho passato tanto tempo a guardare e cercare di capire, scattando tante fotografie finché non ho compreso come funzionava lo spazio. Allora, finalmente, ha preso forma l’idea di realizzare il lavoro come una catalogazione, oppure come un ritratto. Un’altra idea era quella di confrontare le differenze tra natura morta e ritratto. L’immagine che abbiamo dell’attrice è quella di una star glamour, ma tra i suoi oggetti c’è anche lei come nonna, moglie, insomma una persona con una sua vita quotidiana.

CATHERINE OPIE, (Courtesy Regen Projects, Los Angeles and Lehmann Maupin, New York)
“AIDS Activist” from the 700 Nimes Road Portfolio, 2010-11

Per questo lavoro ti sei ispirata a «Graceland», il portfolio che William Eggleston ha realizzato nel 1984 sull’ultima casa di Elvis Presley…
Conoscevo quella serie, ma non saprei dire se ne sono stata ispirata. Ho pensato a Eggleston già quando lavoravo a Inauguration (2011). Durante le mie ricerche è uscito fuori il progetto Graceland che lui ha realizzato come un monumento a Elvis. Il mio lavoro con Elizabeth non aveva le caratteristiche di un monumento, perché l’attrice era ancora viva: quando è morta, però, è diventato qualcos’altro. Le foto rappresentano un punto di vista molto più ampio, con la presenza di oggetti come il libretto delle istruzioni per il telecomando, che non si trovano a casa di Elvis, dove tutto era stato già riordinato e messo in scena.

Parlando, invece, dei tuoi riratti, l’oscurità da cui emergono i personaggi è un espediente metaforico per descriverli o cercare di descriverli?
L’oscurità è il subconscio. I ritratti sono già fuori dalla mia memoria, come quando chiudendo gli occhi si visualizza qualcosa che viene dall’interno, tra subconscio, storia della pittura, luce e come la gente si mette in posa. Oggi abbiamo un rapporto con le immagini così rapido ed effimero, siamo così bombardati dai nostri telefonini e internet, che una possibilità per interrogarsi sul significato di sguardo e di guardare senza giudicare è attraverso il subconscio.

John Baldessari, Kara Walker, Lawrence Weiner, Chuck Close, Hilton Ais, John Waters … qual è il criterio con cui scegli i personaggi che ritrai?
Sono sempre io a scegliere le persone che voglio fotografare, è raro che non sia così, a meno che non si tratti di una commissione. In Guillermo & Joaquin, il neonato è mio nipote, il giorno dopo essere uscito dall’ospedale. Quanto a Diana, la signora di spalle con il segno del costume da bagno sull’abbronzatura, è una delle mie migliori amiche. Ho usato le parole per il ritratto di Jonathan Franzen, perché è più allegorico: ho letto tutti i suoi libri! Persone che sono importanti nella mia vita. All’interno dei ritratti, si susseguono varie tematiche: l’età, la menopausa, la vita. Il fondo nero permette di uscire dal buio verso la luce, così le figure si presentano all’osservatore, diversamente dai paesaggi astratti che funzionano come un momento di pausa. Dato che i soggetti sono così intensi, nella mostra Portraits and Landscapes, ho voluto introdurre dei punti di luce. È anche il momento della fotografia astratta e volevo instaurare un dialogo con questo linguaggio.

Come è mutato nel tempo il tuo attivismo, da sempre presente nel tuo lavoro artistico?
Una buona domanda… Nel lavoro di Elizabeth Taylor non so se l’avrei scelta se fosse stata soltanto famosa. Lei è stata tra le prime e più note sostenitrici della lotta contro l’Aids (Catherine Opie indica la fotografia che ritrae la serie di nastri rossi, alcuni in versione bijoux). È stata questa la chiave. Per me l’attivismo, in un certo senso è cambiato, è diventato molto più interiore. Per la mostra Empty and Full (Institute of Contemporary Art, Boston, 2011, ndr), ho sentito il bisogno di tornare a fotografare in strada. In questo contesto, invece, le domande che mi sono posta sono state soprattutto interne, anche come riflesso dell’attuale stato della fotografia. Nel campo della fotografia documentaria le immagini di Portraits and Landscapes rimangono come testimonianze, ma non sono fotografie documentarie.