Fervono in Venezuela i preparativi di un colpo di stato: un passo dopo l’altro, senza fretta, per quello che il docente universitario Clodovaldo Hernández ha definito, in riferimento al golpe del 2002 contro Chávez, un «11 aprile con il contagocce».

Già l’11 gennaio, il giorno successivo all’insediamento di Maduro, Juan Guaidò, presidente dell’Assemblea nazionale controllata dall’opposizione, aveva gettato il guanto di sfida, rivendicando la sua facoltà di «assumere le competenze della presidenza della Repubblica perché lo dice la Costituzione».

Ma, al di là dell’invito a una «mobilitazione di massa» per il prossimo 23 gennaio, il giovane deputato del partito di estrema destra Voluntad Popular non era voluto andare fino in fondo, ritenendo che dovessero essere «il popolo del Venezuela, le forze armate e la comunità internazionale» a creare le condizioni per la sua formale assunzione del mandato presidenziale.

Un passo ulteriore lo ha compiuto martedì l’Assemblea nazionale, approvando un accordo – subito elogiato dal segretario di Stato Usa Pompeo – in cui si definisce Maduro usurpatore della presidenza e nulli tutti gli atti del suo governo e si annuncia l’avvio di «un processo progressivo di trasferimento delle competenze dal potere esecutivo a quello legislativo». Non senza la sollecitazione rivolta a 46 paesi, a cominciare da Stati uniti e Unione europea, a congelare i fondi venezuelani e l’approvazione di una legge di amnistia per i funzionari civili e militari che collaborino al ripristino dell’ordine costituzionale.

E se manca ancora il passo decisivo, la formale proclamazione di Guaidó come presidente della Repubblica, la Cnn riferisce che Trump starebbe già valutando un suo possibile riconoscimento come presidente ad interim del paese.

Riconoscimento che risulterebbe ben più devastante di quello dello screditato segretario generale dell’Organizzazione degli Stati americani Luis Almagro, che si era precipitato a salutare l’assunzione presidenziale di Juan Guaidó citando articoli della Costituzione evidentemente letti male. O di quello, ancor più irrilevante, del Tribunale Supremo di Giustizia in esilio, la prima istanza di potere parallelo creata nel 2017, che mesi fa aveva già proclamato Antonio Ledezma «presidente di transizione».

Sta di fatto però che, rispetto ai tre attori indicati da Guaidó – popolo, forze armate e comunità internazionale – solo l’appoggio di quest’ultima è garantito. Sempre che si intenda per comunità internazionale gli Usa, la Ue e il Gruppo di Lima, considerando che all’insediamento di Maduro c’erano i rappresentanti di ben 94 paesi e organizzazioni internazionali – più del doppio delle delegazioni presenti all’inaugurazione del mandato di Bolsonaro – senza contare la proficua collaborazione del governo con organismi delle Nazioni unite come la Fao e l’Unesco.

Si spiega così la febbrile ricerca da parte dell’opposizione di un qualche appoggio nelle forze armate, i corpi di sicurezza o uno qualunque dei poteri controllati dal chavismo. Ricerca che haprodotto qualche risultato: la fuga del magistrato della Corte Suprema Christian Zerpa verso gli Stati uniti, dove si è dedicato a sparare a zero su Maduro, e soprattutto la cattura di Guaidó, il 13 gennaio, da parte di funzionari del servizio di intelligence (Sebin) con il chiaro obiettivo di destabilizzare il governo, che tuttavia ha reagito prontamente disattivando l’operazione e destituendo e mettendo a processo i responsabili.

Decisamente ardua appare poi l’impresa di far scendere il popolo in piazza contro Maduro: se si esclude la base chavista, ancora numericamente forte, si registra tra la popolazione un crescente scollamento dalle istituzioni. Una disaffezione dalla politica provocata da una parte dai disastri, le divisioni e la debolezza dell’opposizione e dall’altra dalla prolungata recessione, la crisi generalizzata dei servizi pubblici e i limiti e gli errori del governo.

Limiti ed errori rispetto a cui non sembra ravvisarsi finora un cambio di passo, almeno stando al discorso di Maduro del 14 gennaio all’Assemblea nazionale costituente: ha presentato il bilancio del 2018 e il Plan de la Patria per il suo nuovo mandato ricordando le note e indiscutibili conquiste della Rivoluzione, a cominciare da un investimento sociale cresciuto di 34 volte negli ultimi vent’anni e arrivato nel 2018 al 74,7% del bilancio nazionale.

Il paese di Maduro, tuttavia, non è più quello di Chávez e il presidente farebbe bene a riconoscerlo, lasciando da parte l’ormai trita retorica rivoluzionaria, quella «tendenza all’iperbole» già denunciata dal membro dell’Assemblea costituente Néstor Francia, per assumere un discorso che parli, al contrario, di duri sacrifici e di una ripresa difficile e ancora lontana.

Ma, soprattutto, quello che chiede la popolazione è una svolta decisa sul terreno della politica monetaria – a causa della quale anche l’ultimo consistente aumento dei salari finirà polverizzato dall’iperinflazione – e contro la debolezza finora mostrata verso speculazione e accaparramento, con la sconcertante ostinazione a reiterare gli accordi sui prezzi con il settore imprenditoriale. Fino ai ritardi accumulati rispetto alla diversificazione dell’attività produttiva, sempre annunciata ma mai seriamente partita.