IPaese petrolifero ma rivoluzionario, rivoluzionario ma petrolifero (da questa contraddizione non sarà facile uscire), il Venezuela ha l’unico ministro per l’ecosocialismo al mondo: Herick Rangel, un giovane che si reca a piedi a un incontro sotto i manghi di un parco centrale. E i ragazzi del Movimento ecologista venezuelano, presenti all’Assemblea dei popoli che si è appena svolta nella capitale, più che di petrolio parlano di una «biodiversità fra le più importanti al mondo, da preservare cambiando la cultura, per cambiare il mondo».

Ma quel che conta per ora è uscire dall’emergenza delle minacce. Il Venezuela è diventato epicentro geopolitico non solo perché è sugli smartphone di tutti, non solo perché è nel dossier di tanti governanti amici o nemici, ma perché, fra Brigata di giovani Che Guevara e Assemblea dei popoli, sono arrivati qui, contro l’ingerenza, gruppi da oltre 80 paesi (i cui governi sono variamente schierati). Mai successo, nemmeno in caso di aggressioni militari effettuate. Proprio mentre i media italiani titolavano «Maduro isolato asserragliato a Miraflores», a Caracas si susseguivano chilometriche marce in suo appoggio e i colombiani presenti intonavano in coro «Colombia bolivariana».

Ogni partecipante all’Assemblea dei popoli ha la propria storia che spesso indica un mondo alla rovescia. Quelli dell’America latina stigmatizzano i due pesi due misure dei loro governanti, che, magari riuniti in strutture nemmeno legalizzate (tipo il gruppo di Lima, che ricorda i vari «Amici della Libia» e «Amici della Siria») urlano alla catastrofe umanitaria in Venezuela ma tollerano in patria, diceva Pedro Luis Portocarreno del Fronte patriottico nazionale del Perù, situazioni di violazione dei diritti umani e miseria di massa. Del resto il sito venezuelano Aporrea ha mostrato le baraccopoli della città di Cúcuta, rimasta per settimane centro del mondo per via del mancato transito degli «aiuti umanitari».

Nell’atrio dell’hotel Alba, sede dell’Assemblea, aria condizionata gelida da paese petrolifero ma parsimonia nel sapone, nella carta igienica e nelle porzioni di cibo distribuite con gentilezza, un gruppo di ragazzi di Haiti ha steso per terra un lenzuolo sul quale tutti firmano un messaggio alla sfortunata nazione che per prima abolì la schiavitù. Una di loro dice: «Ad Haiti, dove continua una crisi spaventosa, ogni giorno migliaia di persone scendono in strada per reclamare le dimissioni del presidente illegittimo Moïse, che si è schierato contro il popolo del Venezuela. Ricordo che il presidente Chávez regalò ad Haiti miliardi di dollari per sviluppare il paese, dove sono finiti? Chiediamo giustizia contro la corruzione».

Anche Denis Syndete, del Partito comunista del Benin, ha da dire qualcosa sui processi elettorali illegittimi e sui dittatori, nel silenzio della nobile comunità internazionale: «Il 28 aprile 2019 sono programmate le elezioni, ma nessun partito dell’opposizione potrà partecipare, perché sono state imposte condizioni impossibili, fra le quali il pagamento di una cauzione enorme. La gente è scontenta e manifesta dal 24 febbraio, ci sono stati già già 4 morti. Ma è così da tempo. Nel 1990 la Francia decise per l’impunità del generale presidente Mathieu Liriku che aveva assassinato tante persone…E nel 1995 alle legislative, i sondaggi effettuati da agenzie europee davano spalla a spalla il partito di governo e il partito comunista, ma i brogli elettorali ci fecero guadagnare un solo deputato… Nessuna elezione da noi avviene senza corruzione». Sull’attualità in Venezuela, Denis dice sorridendo: «Forse qualcuno nel mondo osa chiedere all’esercito statunitense di disarcionare Donald Trump?».

Viene dall’Ucraina ed è un po’ isolato in questo contesto Alexei Albu, del movimento antiMaidan Borotba, che era nel palazzo incendiato dai neonazisti a Odessa: «Essendo di sinistra, eravamo politicamente all’opposizione rispetto al presidente Yanukovic, ma di fronte al golpe con ingerenze del 2014, siamo impegnati a costruire un fronte ampio».

Il burkinabè Serge Bajala, educatore di strada, cerca contatti in agroecologia perché con il suo gruppo ha sei ettari a disposizione a 140 chilometri da Ouagadougou: «Ne abbiamo coltivati due a miglio e arachidi, ma dobbiamo arrivare a trasformarli». Un po’ spaesato anche il presidente della Coalizione contadina del Madagascar Rakotomandimby Hajasoanirina. Molto branchées e glamour invece le donne delle ong «ecofemministe» kenyane, sempre in giro per il mondo, fra la Fao e Ginevra.

La venezuelana Noeli Pocaterra, leader indigena wayuu, ricorda quando Chávez la chiamò come membro dell’Assemblea costituente: «Per la prima volta siamo stati riconosciuti come esseri umani».

Un sindacalista del Benin, elegante con un insieme chiamato goodlock, osserva: «Davvero il petrolio non basta per la vita». Qualcuno spiega anche che l’hotel statale Alba è uno degli oggetti del sabotaggio che elementi pro opposizione cercano di attuare da dentro.

Manca l’acqua in varie parti della città, e uno degli abitanti del palazzo El Doral, che dopo 5 giorni ha finito la riserva del serbatoio e svuotato anche le taniche in casa, spiega così: «In questi giorni pare ci sia un’ulteriore rottura da riparare. Il razionamento c’è da tempo, ma eravamo organizzati; c’è la mancanza di pezzi di ricambio e poi azioni di sabotaggio, credo, da parte di persone dell’opposizione che lavorano nelle imprese pubbliche».

Tutto quello che è pubblico costa poco o nulla, quello che è venduto da privati ha prezzi astronomici. I cronisti internazionali che scrivono che l’acqua in bottiglia ha prezzi inarrivabili, dovrebbero forse consultarsi con i venezuelani: loro, semplicemente, usano quella del rubinetto, facendola bollire per precauzione a causa della sua permanenza nei cassoni di accumulo..