Nuova mossa del presidente turco Recep Tayyip Erdogan: con un decreto presidenziale ha conferito a se stesso la presidenza del fondo sovrano turco e al contempo liquidato l’intero management che, nel corso degli ultimi due anni, ha tenuto le redini di uno dei più potenti e controversi strumenti finanziari di cui si è dotato il paese anatolico.

Un fondo dal valore di oltre 200 miliardi di dollari e che detiene la proprietà formale di numerose aziende statali ad alto valore strategico, tra cui la compagnia aerea Turk Havayollari, la compagnia telefonica e provider internet Turk Telekom, le banche pubbliche Ziraat e Halk Bankasi, oltre a diversi asset nel settore delle poste, del mercato finanziario, dell’energia e idrocarburi e dei trasporti.

Creato due anni fa, era stato annunciato come uno strumento per contenere i danni all’economia causati dal fallito golpe del luglio 2016. In questo periodo ha acquisito la proprietà di numerose aziende e proprietà confiscate a organizzazioni e individui condannati per terrorismo.

Lo scopo ultimo del fondo non è mai stato chiarito, ma è certo che con questa mossa Erdogan ha messo le mani su un altro pezzo delle istituzioni finanziarie chiave della Turchia, accentrando ancora di più il controllo del paese in un momento di grave crisi finanziaria.

Erdogan rifiuta il termine «crisi» e ritiene che le difficoltà dell’economia turca siano frutto di manipolazioni di attori esterni, in particolare gli Stati uniti, con i quali la crisi diplomatica è sempre più grave.
Una teoria, quella della guerra economica, solo parzialmente sposata dalla Banca centrale turca la cui indipendenza è compromessa dai nuovi meccanismi di elezione del comitato direttivo che la presiede.

Tempo fa i vertici bancari aveva dichiarato che i buoni fondamentali dell’economia del paese non giustificavano le difficoltà finanziarie in corso. Eppure ieri la banca ha deciso per un nuovo, vigoroso rialzo dei tassi di interesse, rimedio sostenuto con forza dagli analisti di mercato per tamponare la svalutazione della lira turca e l’inflazione galoppante.

La valuta turca ha perso quasi il 50% del proprio valore nei confronti delle monete forti dollaro ed euro nel solo 2018, colpendo duramente la capacità di Stato e imprese private di ripagare i debiti contratti negli ultimi 15 anni e che avevano spinto l’economia turca verso una crescita molto alta e difficile da sostenere nel medio periodo. L’inflazione si è ufficialmente attestata sul 18% ad agosto, in ulteriore incremento rispetto al 16% di luglio e al 10% di inizio anno.

Ricerche indipendenti, come quella della Federazione dei consumatori, hanno indicato tassi d’inflazione reale molto più alti, anche fino al 35% per alcuni settori, in particolare gli alimentari.

E la banca centrale, che ha visto in questi mesi crollare le proprie riserve in oro e valuta estera, avverte che i dati economici saranno monitorati su base settimanale e un’ulteriore stretta sui tassi può essere considerata in futuro. Alla decisione è seguita l’aspra critica di Erdogan, accusato di aver tenuto in ostaggio la Banca centrale negli ultimi anni in ossequio alla sua convinzione economica eterodossa, secondo cui bassi tassi d’interesse e inflazione non sarebbero collegati. Erdogan ha definito la scelta della Banca un «passo errato», pur rinnovando la dedizione del proprio governo al mercato libero capitalista.

La decisione della Banca centrale, contraria ai desideri di Erdogan, sembra dunque stemperare i timori circa l’assenza d’indipendenza nella politica monetaria, nonostante la presenza ingombrante del presidente, le cui dichiarazioni sembrano corrispondere a un monito sulla testa della direzione dell’istituzione.