Il più grande laboratorio sotterraneo del mondo è attualmente in Italia, ed è scavato all’interno del Gran Sasso. Ma il primato è destinato a passare presto di mano quando sarà ultimato il laboratorio CJPL (China Jingping Underground Laboratory) nella provincia di Sichuan, nel sud-ovest della Cina.

Intanto, nel 2020 entrerà in funzione nella provincia cinese del Guangdong l’esperimento JUNO, sigla di Jiangmen Underground Neutrino Observatory.

Si tratta di un gigantesco rivelatore di neutrini che verrà posizionato a circa settecento metri di profondità in un nuovo laboratorio sotterraneo al momento in fase di scavo. Come al Gran Sasso, infatti, l’obiettivo dei ricercatori è studiare la misteriosa particella elementare in grado di attraversare quasi indisturbata la materia e osservabile solo sotto centinaia di metri di roccia, al riparo dalla pioggia incessante dei raggi cosmici che attraversa l’atmosfera.

I neutrini saranno forniti dai reattori delle centrali nucleari di Yiangjiang e Taishan, distanti una cinquantina di chilometri dal sito ciascuna, ma anche dalle sorgenti astrofisiche, come le reazioni nucleari che avvengono nel Sole.

Chi fosse preoccupato per il prestigio dello stellone non deve dispiacersi. Anche nel progetto JUNO, a cui collaborano ben 71 università ed enti di ricerca da 16 paesi diversi, c’è parecchia Italia.

La competenza accumulata al Gran Sasso dai ricercatori dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) è assai apprezzata nel mondo: oltre al vice-direttore Gioacchino Ranucci, tra gli scienziati italiani impegnati c’è anche Lucia Votano, prima direttrice donna dei laboratori del Gran Sasso tra il 2009 e il 2012 e tra i massimi esperti mondiali nella ricerca sperimentale sul neutrino.
Calabrese, ricercatrice INFN dal 1976, Votano ha lavorato ai laboratori di Frascati, al sincrotrone DESY di Amburgo, al Cern di Ginevra e al Gran Sasso. Autrice di circa 300 pubblicazioni scientifiche, ha appena scritto «La via della seta. La fisica da Enrico Fermi alla Cina» per l’editore Di Renzo (v. scheda). L’obiettivo di Votano e colleghi è, nientemeno, andare oltre il Modello Standard delle particelle elementari, come spiega lei stessa. «Secondo il modello, il neutrino si presenta in tre forme diverse e non dovrebbe avere massa. Invece, il fatto che possa trasmutare da una tipologia all’altra dimostra che la sua massa non è nulla e che il modello standard non spiega tutto. Il fenomeno della trasformazione o oscillazione dei neutrini era stato teorizzato da Bruno Pontecorvo e decenni di ricerche, premiate nel 2015 anche con il Nobel, lo hanno confermato. L’obiettivo di JUNO è misurare con precisione i parametri che regolano tale fenomeno e stabilire una gerarchia tra le masse dei neutrini».

Qualcosa di simile si fa anche al Gran Sasso, dove il rivelatore Borexino capta il passaggio di neutrini provenienti dal cosmo. «Sì, Borexino ha dato un’enorme contributo allo studio dei neutrini solari. JUNO ha degli scopi scientifici più ampi e sarà molto più grande. Per intercettare i neutrini, JUNO utilizzerà ben ventimila tonnellate di liquido scintillatore, contenuto in una sfera del diametro di quaranta metri. Intorno, quarantamila fotomoltiplicatori misureranno con grande precisione l’interazione tra il liquido e i neutrini, particelle leggerissime e difficilissime da rivelare. Si tratta di un esperimento di dimensioni ragguardevoli già a partire dallo scavo».

E i soldi? «L’investimento arriva a 300 milioni di euro. Anche se la collaborazione coinvolge molti paesi, circa il 95% del denaro proviene dalla Cina così come il 60% dei ricercatori impegnati. Si tratta di un investimento gigantesco per i nostri standard. Basti pensare che con il budget totale di JUNO si potrebbe mantenere l’intero INFN, a cui il governo destina circa 260 milioni di euro l’anno».

È facile collaborare con i cinesi in un progetto così ambizioso? «I cinesi sono professionisti seri e gran lavoratori. Il timone della collaborazione è saldamente in mano al direttore dell’Istituto cinese di Fisica delle Alte Energie Wang Yifang, cui il governo ha affidato la gestione del budget finanziario. In occidente, una collaborazione così ampia probabilmente verrebbe gestita in modo un po’ più orizzontale. I ricercatori cinesi oggi sono molto consapevoli della missione di leadership scientifica mondiale che il governo ha assegnato loro. La collaborazione è iniziata formalmente da poco (nel 2014), esistono delle differenze culturali tra oriente e occidente che potrebbero venire fuori nel futuro, ma gli scienziati hanno già dimostrato di riuscire a lavorare insieme e in pace al di là di diversità di ogni genere. L’economia della Cina fino a poco tempo fa era basata sul basso costo della manodopera, più che sulla scienza. Stanno facendo passi da gigante anche in questo campo. Nel 2015 il governo ha approvato un piano battezzato “Made in China 2025”, che prevede un investimento di 300 miliardi di dollari per la riconversione dell’industria cinese verso una produzione ad elevato valore aggiunto. È il primo dei tre piani decennali che mirano a fare della Cina il primo paese al mondo in settori come l’informatica e le telecomunicazioni, le biotecnologie o il cosiddetto “internet delle cose”. Il traguardo è fissato al 2049, il centenario della Repubblica Popolare. Ma non partono da zero. Sono stata in Cina per la prima volta nel 1990, offrimmo borse di studio per collaborazioni con l’INFN: vi fu grande competizione perché era un’occasione notevole. Oggi i laboratori cinesi competono alla pari con quelli occidentali anche dal punto di vista economico».

Una buona ragione per spingere un ricercatore italiano a trasferirsi in Cina, e una per non andarci. «Oggi un ricercatore italiano trova in Cina un settore di ricerca in netta espansione, a differenza del nostro paese. Ma la barriera culturale, a partire da quella linguistica, è ancora forte». Lei è stata la prima donna a capo di un centro di ricerca importante come i Laboratori Nazionali del Gran Sasso. L’espansione della ricerca scientifica ha aperto le porte delle carriere scientifiche anche alle ricercatrici cinesi?
«La percentuale di scienziate è più bassa in Cina che in Europa, dove comunque è raro trovare donne nelle posizioni dirigenziali. Tuttavia la componente femminile è in crescita, e nei laboratori cinesi incontro scienziate preparate e agguerrite. Ma la questione viene affrontata raramente nelle conversazioni con i colleghi, come d’altronde qualunque argomento che riguardi la politica».