Ascendiamo verso un faro che sorge al vertice di un’alta e boscosa scogliera nelle tenebre di una notte spaventosa, agitata dai venti micidiali di un’abnorme tromba d’aria che dal mare procede distruttiva verso il paese che si estende addormentato sulla costa. Passo dopo passo, rallentati dalla violenta rivoluzione aerea, ci avviciniamo alla lontana luce mentre i rami degli alberi si agitano impazziti. Controlliamo i movimenti di una ragazza esile la cui fragilità percepiamo come vera e illusoria insieme, poiché stabilendo il ritmo di questa spossante gita al faro da incubo è inevitabile percepire la determinazione della giovane donna così come il suo terrore. Proprio nei pressi della torre rari frammenti sonori da un altrove differente cominciano a inserirsi nella cacofonia della catastrofe dominata dal ruggito del tornado per affermarsi sempre più invasivamente e realizziamo di essere dentro una visione.

Ci risvegliamo poco dopo nella luce mattutina che infonde l’aula scolastica durante una lezione di fotografia, mentre si discute l’origine storica e antica del «selfie» inteso come autoritratto contemporaneo. Dopo l’apocalittico presagio è confortante tornare alla realtà e trascorrono solo pochi secondi che la «normale» quotidianità ci cattura, obbligandoci ad interagire con i compagni e un professore carismatico anche troppo. Sono trascorsi solo pochi minuti da quando è iniziato Life is Strange -videogame uscito a puntate in versione digitale durante il 2015 e ora disponibile in un’edizione fisica e integrale per console e PC- ma siamo subito scaraventati con un’ossimorica violenza gentile dentro il corpo e la mente di Maxine Caulfield, sperimentando una partecipazione emotiva che è raro provare già all’inizio di un gioco.

Si instaura quindi immediatamente un’identificazione tra il personaggio e chi la interpreta che possiede un’intensità romanzesca e sarà destinata ad aumentare, coinvolgendo una vasta gamma di emozioni, durante le quindici ore circa che ci vorranno per terminare quest’opera fondamentale, verista e paranormale sulla giovinezza perduta nell’era della socialità virtuale. Un coinvolgimento che andrà oltre la fine del gioco, permanendo nella memoria di chi l’ha esperito con la stessa forza di un sonetto di Leopardi imparato a memoria per amore e non per dovere. Sviluppato dal team parigino di Dontnod, che ci fa sperare nel sorgere di una Nouvelle Vague videoludica, e pubblicato dai giapponesi di Square-Enix, Life is Strange si consuma tutto nei luoghi di una marittima, immaginaria cittadina dell’Oregon dal simbolico nome di Arcadia Bay, un luogo che inizialmente ci appare mitico quanto quello greco traslato dalla letteratura dei poeti ma precipitato nell’abisso della crisi contemporanea.

Qui Max, subito dopo la visione del tornado, scoprirà di possedere il potere di riavvolgere il tempo come fosse il nastro di un’obsoleta videocassetta e interagendo con gli eventi è in grado di modificare il presente e il futuro. A questo punto in un ambito che potrebbe essere totalmente sovrannaturale Life is Strange riesce con lirismo a non precipitare nella fantasia e permane ancorato ad un verismo incantato; volgendosi verso le quotidiane tragedie emergenti e dirompenti nella vita degli adolescenti che stanno per sconfinare nell’ignoto reame della maturità. Il giocatore vive dunque un’avventura dove l’azione è subordinata al racconto e alla dialettica su cui si fonda il rapporto con gli altri personaggi, poiché bastano poche parole o l’azione giusta per modificare la storia e i rapporti con gli studenti e gli abitanti di Arcadia bay. Ci muoviamo per gli spazi del gioco ascoltando i pensieri di Maxine intrecciarsi con i nostri, attraverso i corridoi della scuola, nello spazio intimo della sua camera, in una vecchia discarica abbandonata tra la selva, per le strade attorno alle quali è cresciuto il paese. Osserviamo, conversiamo, risolviamo enigmi, indaghiamo e quando è necessario scivoliamo di nuovo nel passato, cercando una soluzione che alteri l’orrore del presente e i presagi dell’apocalisse.

L’intreccio fa leva sul mistero di una ragazza scomparsa, sulla meschinità di un bullismo idiota che divora la psiche dei ragazzi più sensibili, sulle mire egemoniche dei potenti, sul pregiudizio che inganna, sul rimorso e sullo struggimento del lutto. Ma soprattutto Life is Strange è un’elegia virtuale sull’amicizia tra due ragazze, la protagonista Maxine e Chloè, amica perduta e ritrovata, una ragazza ribelle dai capelli tinti di blu-punk la cui forza non nasconde gli spettri del disagio e di un intimo dolore insopprimibile. L’andamento del racconto non è mai affossato dal cattivo gusto di uno spettacolarità perseguita solo ai fini di un effetto immediato, e possiede una ritmo mai troppo veloce, solfeggiato con grazia e delicatezza anche durante i passaggi più macabri e disperati. Ispirato in parte alle atmosfere stralunate, tetre e poetiche di Twin Peaks e dallo Stephen King più intimista e giovanilistico di The Body o Christine, Life is Strange è tuttavia francese nello spirito e nell’estetica in una maniera che ricorda tematiche, visioni e suggestioni del cinema di François Truffaut con le sue inquietudini e la sua tenerezza, talvolta quello di Claude Chabrol, quando sprofondiamo nella cronaca di un disagio ai limiti della follia. I riferimenti culturali e artistici sono numerosissimi e riconoscerli è parte del gioco, poiché non sono solo citazioni ma elementi vitali e fecondi del tessuto ludico e narrativo: Il Popolo dell’Autunno di Ray Bradbury, le fantasie finali di Hironobu Sakaguchi, la saga de Il Pianeta delle Scimmie, le teorie e le opere dei maestri della fotografia, le canzoni di Sparklehorse, gli X-Files, i fumetti dei super-eroi…

Non c’è un confine ghettizzante tra quella che è considerata la cultura «alta» e quella pop. Chi gioca Life is Strange può personalizzare sensibilmente la trama, prendendo decisioni fondamentali nei momenti chiave del gioco, anche durante gli attimi che sembrano meno determinanti, fino alle micidiali scelte finali. Così sorge spontaneo il desiderio di rivivere questo videogame così singolare che si impone con il suo stile e la sua poesia al vertice dei videogiochi-racconto intesi più come esperienza che intrattenimento ludico, ad esempio Heavy Rain o Beyond di David Cage e la versione interattiva di The Walking Dead di TellTale Games. Life is Strange, con sentito romanticismo, ritorna a cantare della lotta tra l’essere umano e la mostruosità del destino, ponendo al centro del conflitto due giovani donne tormentate anziché eroi mitici. Ma non ci inganna sulla bontà del fato, che è sempre meschino, anche quando può essere modificato, e si diverte sadicamente a giocare con gli esseri umani. Molti continuano a considerare i videogiochi oggetto causante alienazione, alimentatore di infeconde perdite di tempo, promotore di un’immorale diseducazione e motivo di un’egoistica asocialità. Qualche volta può essere vero, quasi sempre no. È innegabile che questi siano un nuovo e potentissimo vettore di contenuti artistici, narrativi e filosofici e Life is Strange potrebbe dimostrarlo anche a chi non ha mai tenuto il controller di una console o il mouse di un computer in mano per entrare in altri mondi elettronici. Coloro che non condividono quello che scrisse Friedrich Schiller: «l’uomo è completamente uomo solo quando gioca».