L’Italia è un paese «profondamente di destra». È questo l’adagio risuonato, a margine delle elezioni siciliane, da parte dei tanti che preferiscono il comodo rifugio negli stereotipi. Il consueto refrain serve a consolarsi delle sconfitte, rassicura il proprio conformismo.

E soprattutto incoraggia a proseguire in una politica che inclina a destra, che si piega agli umori conservatori del paese per raccogliere i consensi necessari per “vincere” e avere accesso al governo. Vecchia storia. Ma è davvero di destra l’Italia? Certo, nel nostro paese esistono ampie zone di vera e propria abiezione civile. Si pensi alle aree di collusione popolare con la criminalità in alcuni quartieri del nostro Sud, alla persistenza di gruppi reazionari e di aperta vocazione fascista, all’ egoismo territoriale e xenofobo di tanti strati di popolazione nelle zone influenzate dalla Lega. Ma bastano queste presenze per connotare con sicumera statistica la reale geografia politica ed elettorale dell’Italia? Come si fa a definire conservatore un paese che per ben due volte, nei referendum del 2006 e del 2016, ha battuto con larghe maggioranze il tentativo di stravolgere la Costituzione repubblicana, una delle più avanzate dell’Occidente? Sono da considerarsi di destra i circa 25 milioni di cittadini che nel referendum del 2011 hanno votato a favore dell’acqua pubblica? E come è stato possibile far marciare in un paese di destra, 3 milioni di persone nel febbraio 2003, in difesa della pace nel più grande corteo, forse, nella storia dell’Italia repubblicana? È  di destra un paese che trascina in piazza due milioni di persone in difesa dei diritti fondamentali del lavoro (art. 18), che mobilità in giornate memorabili centinaia di migliaia di donne nelle varie piazze d’Italia nel novembre 2016 e nel marzo 2017? Per restare agli eventi recenti?

In realtà commentatori e uomini politici non sanno leggere i fenomeni che hanno sotto gli occhi.

E mettono in un indistinto sacco gli elettori che oggi si astengono dal voto. In realtà, i milioni di italiani che “restano a casa” esprimono a loro modo un’autentica rivolta politica contro il grado di impotenza cui è giunta la nostra democrazia rappresentativa. Quel che non si è capito, di fronte alla diserzione in massa dalle urne, è che sono le elezioni in sé, l’atto del voto, il rito dell’affidamento delle proprie volontà a un rappresentante, l’oggetto del disincanto, del rifiuto, della rabbiosa negazione da parte dalla quasi maggioranza dei cittadini. I quali molto prima del ceto politico si sono accorti del drammatico svuotamento di questa forma storica di democrazia, incapace non solo di dar loro voce, ma di cambiare un solo frammento della loro vita. Ma come potrebbe essere diversamente? Sono decenni che i partiti politici, di destra e di sinistra, anche in anni di crescita economica, appaiono impegnati a diminuire le conquiste storiche del welfare, a rendere sempre più flessibile e precario il lavoro,a ridurre l’accesso alle prestazioni sanitarie, a privatizzare i servizi, a rendere sempre più costoso l’accesso all’università, ad acuire le disuguaglianze di classe.

Ceti popolari e ampie porzioni di ceto medio indietreggiano di anno in anno per precise politiche dei governi e dovrebbero continuare a frequentare le urne anche in assenza di una visibile alternativa di sistema? È evidente che senza l’illusorio miraggio dei 5 stelle la diserzione sarebbe stata ancora più vasta.

Per questo trovo per dir così fanciulleschi lo stupore e la delusione con cui si è accolto il 6% del voto a Claudio Fava in Sicilia. Ma cosa poteva ottenere di più un candidato in due mesi di campagna elettorale? Mentre le forze politiche che lo rappresentavano hanno speso quasi un anno a traccheggiare con Giuliano Pisapia, fornendo al vasto pubblico quel desolante spettacolo della politica come trattativa tra capi, manovra tattica, fatta di dichiarazioni e smentite, pettegolezzi e litigi che per l’appunto alimenta la diserzione di in massa dalle urne? E soprattutto toglie alle persone che pensano ogni speranza che possa cambiare alcunché nella propria vita per iniziativa e merito della politica.

Ora si aspetta Pietro Grasso, auspicabile novità, certamente, anche se si tratta di sforzi operativi che finiscono ormai col concentrarsi nel fine esclusivo di partecipare alle competizioni elettorali. Avere una giusta posizione sui vari problemi del paese per far prevalere il proprio messaggio grazie a qualche presenza televisiva certo non basta.

Si potrebbe ridare senso alla politica in Italia se intorno ad alcuni grandi problemi si organizzassero giornate di discussione con i principali protagonisti. Abbiamo un territorio in pericolo? Non richiede un grande sforzo mettere insieme, per elaborare soluzioni, sindaci, agricoltori, ingegneri, associazioni ambientaliste, le cooperative degli immigrati. La scuola italiana sta subendo la peggiore degradazione della sua storia novecentesca. Si possono chiamare a raccolta gli insegnanti (sempre vittime passive delle riforme governative), gli studenti, gli intellettuali, gli scienziati, per una riflessione strategica delle sue prospettive. E le donne? Non siamo in grado di mettere in piedi forme di partecipazione con questo immenso e latente patrimonio di culture e potenzialità rivoluzionarie? Giusto per non essere sempre a caccia di leader, cristianamente in attesa di salvatori.

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