A Budapest una bandiera arcobaleno ha sventolato, per la prima volta, sulla facciata del palazzo comunale. Un’iniziativa del sindaco Gergely Karácsony, esponente del partito ecologista di centro-sinistra Párbeszéd Magyarországért, che è stata imitata, nelle sedi municipali di loro pertinenza, da sindache e sindaci di molti dei 23 distretti, in cui è suddivisa la metropoli ungherese. E così, mentre il 20 agosto, festa nazionale di santo Stefano I, considerato il fondatore dello Stato d’Ungheria, il primo ministro Viktor Orbán tuonava contro un’Europa occidentale che, rinunciando alle sue radici cristiane, «sperimenta un mondo senza Dio, famiglie arcobaleno e migrazioni», il simbolo della comunità Lgbti+ sugli edifici istituzionali della capitale richiamava già da giorni un diverso sentire. Quello, cioè, dell’inclusione, dell’accoglienza, del rispetto delle differenze, che si è vissuto nei 37 eventi a carattere artistico, culturale e ludico del Budapest Pride Festival.

INIZIATA IL 14 AGOSTO e conclusasi oggi con un pic-nic sull’Isola Margherita, la 25° edizione della kermesse Lgbti+ sarà indubbiamente ricordata per la congiuntura pandemica, che ha portato alla cancellazione della tradizionale parata, la più grande dell’Europa dell’Est, prevista il 22 agosto lungo l’elegante Andrássy út, e alla riformulazione della stessa in streaming (un po’, insomma, come avvenuto in altre parti del mondo e, soprattutto, con il Global Pride del 27 giugno). Ma anche per la voglia di reagire al clima illiberale e repressivo, vigente nel Paese dal 2010 e particolarmente inaspritosi sotto l’attuale mandato di Orbán, rieletto nel 2018 per la terza volta consecutiva.

A esprimere una tale volontà di svolta e rinascita lo slogan Vedd vissza a jövőd! (Riprenditi il futuro!), che è stato il fil rouge della dieci giorni arcobaleno. In tale ottica sono stati declinati i diversi temi, dal problema abitativo per le persone Lgbti+ alle discriminazioni all’interno delle relative comunità, ma anche femminismo, situazione ambientale, crisi di fiducia nella democrazia.

«È stato molto commovente – dice l’attivista Tamás Dombos, componente del direttivo della nota associazione Háttér Társaság – vedere che diversi governi locali a Budapest hanno fatto sventolare per la prima volta la bandiera arcobaleno. Non solo quindi le ambasciate, ma anche i nostri rappresentanti eletti trovano importante difendere le persone Lgbti+».

SI SONO PURTROPPO registrate incursioni vandaliche da parte di ultranazionalisti, che hanno rimosso o bruciato le bandiere. Quella, ad esempio, sulla facciata del Palazzo comunale è stata gettata in un cassonetto da Előd Attila Novák, vicepresidente del partito Mi Hazánk Mozgalom, nato nel 2018 da una scissione da Jobbik. Per Tamás, che racconta anche di eventi del Pride Festival interrotti dai neofascisti, a essere «particolarmente allarmante è che nessun funzionario governativo ha condannato tali attacchi. Anzi, alcuni media filogovernativi li hanno persino celebrati. Ma, come dimostrato ulteriormente in questi dieci giorni, la comunità è forte. Non ci lasceremo intimidire o scoraggiare: continueremo la nostra lotta per la parità di diritti e la piena accettazione sociale».

Non sono mancati, per quanto pochi come rilevato da Krisztina Kolos Orbán, eventi dedicati alle questioni transgender. La vicepresidente di Transvanilla, che il 21 agosto ha partecipato al dibattito sul film Indianara (incentrato sull’attivista transfemminista brasiliana Indianara Siqueira, consigliera comunale a Rio insieme con Marielle Franco), rileva la situazione di particolare vessazione e discriminazione in cui versano le persone trans ungheresi.

Il riferimento è all’articolo 33 della cosiddetta “legge insalata” (salátatörvény), che, approvata il 19 maggio dal parlamento e promulgata dal presidente János Áder 9 giorni dopo, ha inserito nel quadro normativo nazionale il dato del “sesso di nascita”, che definisce permanentemente il genere di una persona «sulla base dei caratteri sessuali primari e sui cromosomi». Ciò significa che il dato anagrafico registrato alla nascita, F (férfi per uomo) o N ( per donna), è immodificabile al pari del nome assegnato, per cui è proscritto quello d’elezione anche in caso di intervento di riassegnazione chirurgica del sesso o terapia ormonale. «Le persone trans – ci dice Krisztina – sono sempre state invisibili e isolate nella società ungherese. Ma adesso ci sentiamo ancor di più cittadine di seconda classe. Molte di noi vorrebbero lasciare il Paese, molte si sentono totalmente devastate perché hanno perso la speranza di vivere in base al loro vero genere. Ci sentiamo senza speranza e temiamo che la situazione peggiori».

Per l’intellettuale lesbica Paola Guazzo, attenta alla situazione delle persone Lgbti+ in Europa centrale, il dato «del sesso di nascita, che nient’altro è se non la certificazione anagrafica immodificabile del sesso biologico, rappresenta un serio pericolo anche per le donne. Il fatto, ad esempio, che l’Ungheria non abbia ratificato la Convenzione d’Istanbul ci insegna che, quando si insiste solo su un tale concetto e lo si contrappone a quello di genere e identità di genere, si finisce per minare anche i diritti delle donne e favorire il sistema patriarcale e maschilista, contro il cui lottiamo da sempre».

MA NON TUTTO È PERDUTO, il futuro, secondo lo slogan del Budapest Pride, può essere appunto ripreso. Non a caso, il 14 agosto, quando ha avuto inizio il festival, i sei principali partiti d’opposizione del Paese hanno annunciato che si presenteranno in coalizione alle elezioni del 2022, ricalcando il modello già sperimentato alle amministrative budapestine dello scorso anno. Karácsony, colui che dieci giorni fa ha fatto sventolare per la prima volta la bandiera arcobaleno sul palazzo del Comune, è infatti riuscito a strappare la capitale a Fidesz, il partito di Orbán, trasformando l’iniziale corsa personale in uno sforzo congiunto di tutte le parti politiche antiorbaniane.