«I giochi per il 2018 sono fatti. Ci muoveremo su interventi strutturali che non hanno costi», secche e prive di ambiguità, le parole del ministro dell’Economia Tria al termine della riunione Ecofin a Bruxelles suonano come un de profundis per il miraggio di muovere subito i primi passi verso Flat Tax e reddito di cittadinanza.

NON È UNA SORPRESA. Il punto dolente era già chiaro al governo italiano. Probabilmente anche per questo Salvini alza un fuoco di sbarramento così fitto e a tutto campo per distogliere l’attenzione dal fronte dei conti, dove l’autoproclamato «governo del cambiamento» sembra avviato a non cambiare niente.

Del resto la Risoluzione di maggioranza sul Def, votata dal Parlamento la settimana scorsa, veicolava un messaggio diametralmente opposto a quello declamato dai relatori, primo fra tutti il leghista Bagnai. I discorsi insistevano sulla necessità di forzare le regole europee. Il testo assicurava invece piena osservanza delle stesse. Tria, da Bruxelles, rende esplicita e conclamata la volontà di allineamento.

«L’intenzione – promette il ministro italiano alludendo alla correzione dei conti pubblici già messa nero su bianco dal suo predecessore nella Nota di aggiustamento al Def – è cercare di rispettare l’impegno dello 0,3%». Si parla di circa 5 miliardi e in realtà il governo italiano intende ritoccare quella cifra impugnando a giustificazione il rallentamento della ripresa in tutta Europa: «Potrebbe esserci una piccola deviazione». E potrebbe esserci anche uno slittamento della data dal 2018 al 2019, che l’Italia certamente chiederà.

Ma la vera musica per le orecchie delle leadership europee è l’impegno a intervenire sul debito perché, se è vero che questo è «certamente sostenibile secondo tutte le stime», è altrettanto importante «che i mercati credano a queste stime».

Si tratta nel complesso di una impostazione in strettissima continuità con quelle dei governi precedenti e in particolare con quella di Padoan.

Fino a quando reggerà il gioco di prestigio consistente nel tenere insieme questa continuità e le promesse che continuano a essere ribadite a ritmo quotidiano è la vera incognita.

MA SE NON SARÀ L’ITALIA a creare problemi sul fronte economico nel Consiglio d’Europa del 28 e 29 giugno, qualche nodo potrebbe arrivare al pettine lo stesso, anche senza contare la vera bomba che resta quella del pacchetto migranti. Anche sugli altri due punti chiave sul tavolo, infatti, non c’è nessuna intesa generale. La proposta franco-tedesca di riforma del bilancio europeo è contrastata da un nutrito gruppo di ben 12 Paesi. Ieri hanno affidato al ministro delle Finanze olandese Hoektra l’incarico di comunicare con apposita missiva il loro pieno dissenso, che si concentra in particolare sull’ipotesi di ricorrere alla tassa sulle transazioni finanziarie per rimpinguare il bilancio comune. «L’eurozona non può restare così com’è», era andato all’attacco dopo il vertice Ecofin il ministro francese Le Maire. Ha un po’ mitigato i toni dopo il pronunciamento dei 12 dissidenti: «Comunque non si tratta di prendere o lasciare».

Ancora più spinoso il terzo punto che sarà al centro del Consiglio, l’Unione bancaria.

L’OBIETTIVO DELLA FRANCIA, sostenuto fortemente anche dall’Italia sia con la gestione Padoan che con quella attuale, era arrivare a una condivisione piena dei rischi bancari. Si tratta di omogeneizzare le garanzie per l’intero sistema bancario dei Paesi membri, il che permetterebbe l’afflusso dei capitali anche verso Paesi considerati meno solidi come appunto l’Italia, dal momento che godrebbero comunque della garanzia europea.

Sul punto però a Berlino puntano i piedi. Hanno già fatto sapere che comunque 14 istituti tedeschi non faranno parte dell’Unione e in ogni caso per il momento non intendono andare oltre la fase della condivisione della «riduzione dei rischi», cioè della sola sorveglianza. Si tratterebbe in questo caso non solo di un’Unione bancaria posticcia ma anche di un peggioramento della situazione per i Paesi con i sistemi bancari meno sicuri.

FRANCIA E GERMANIA, divise sulla condivisione dei rischi, sono unite invece nel proporre una riforma dell’Esm, il nuovo Fondo salva-Stati dotato di poteri di sorveglianza e controllo sulle scelte economiche dei singoli governi. Dal momento che le decisioni vengono prese con l’80% degli aventi diritto al voto i due Paesi di fatto si candidano a formare il nuovo direttorio europeo (hanno ciascuno oltre il 20% dei voti), e acquisterebbero un peso determinante. Se non schiacciante.