Antonino Infranca continua la sua infaticabile opera di studioso e traduttore delle opere meno frequentate di György Lukács. È la volta di dieci interviste che il filosofo ungherese ha rilasciato tra il 1963 e il 1971, nel momento in cui, dopo aver congedato la monumentale Estetica, lavora all’altrettanto ciclopica Ontologia dell’essere sociale.

MERITO DELL’EDITORE Punto Rosso è di averle raccolte in un agile volumetto dal titolo Lukács parla. Interviste (1963-1971) (pp. 200, euro 18). Infranca, che ne cura l’edizione, firmando inoltre un’utile prefazione, ha tradotto queste testimonianze da ben quattro lingue, fra cui l’ungherese.
L’impressione del lettore conferma l’intuizione del titolo: con generosità Lukács affronta, a volte a briglia sciolta, questioni e temi della sua riflessione, non sprecando giudizi politici netti e concedendosi lunghe parentesi biografiche. È evidente che al centro dei suoi pensieri sia la riformulazione di un marxismo della vita quotidiana in grado di rispondere alle responsabilità politiche dello stalinismo e alla crisi del socialismo internazionale.

IL RIVERBERO di questa tensione verso un obiettivo nuovo è evidente nella forma spietatamente e sapientemente critica che i ragionamenti di Lukács sembrano talora esibire, anche e soprattutto quando rivolti alla sua stessa attività di filosofo («Quando ho visto errori o false direzioni nella mia vita, ho sempre voluto ammetterlo», confessa a Perry Anderson). E se il tono di queste interviste sembra concedere margini di libertà espressiva, non senza formule che arrivano al lettore come sintesi inequivocabili («ho sempre pensato che fosse meglio vivere nella peggiore forma di socialismo che nella migliore forma di capitalismo»), stupisce la capacità del filosofo di ragionare attraverso una perenne verifica dei concetti, quasi la dialettica prendesse forma continuamente per mezzo di un’occasione temporanea di riflessione.

SONO GLI ANNI in cui Lukács ripensa la concezione materialistica della vita e dell’arte, conferma il suo impegno teorico contro le derive dell’avanguardia letteraria, aggredisce senza remore il dogmatismo e il tatticismo staliniano (a tal proposito: dobbiamo a Infranca anche l’instancabile offerta di fonti che chiariscono la posizione del filosofo ungherese su Stalin) e si apre, con straordinaria freschezza, alle possibilità di una filosofia sociale che, pur non rinunciando all’eredità dello hegelo-marxismo, sappia dare risposte ai processi di individuazione e alle nuove necessità espressive.

PERLA DELLA RACCOLTA è senza dubbio la cosiddetta Intervista sconosciuta del 1968, rilasciata a Ferenc Fehér, su richiesta dell’allora segretario del Comitato centrale del Partito socialista operaio ungherese, György Aczél. Si tratta di un testo molto importante, sia perché viene presentato per la prima volta nella nostra lingua, sia perché contiene una discussione sulla personalità di Palmiro Togliatti («la più grande di questa epoca») e sui problemi teorici sollevati dal rapporto tra strategia e tattica. Il ragionamento sul Partito comunista italiano e sull’eredità di Gramsci sembra qui essere il grimaldello per poter discutere attorno al processo di democratizzazione del socialismo.

LA QUESTIONE TEORICA su cui Lukács insiste – perché la ritiene centrale nel suo dialogo con Aczél – è difatti quella della manipolazione imposta da un dogmatismo meccanicistico e oggettivistico, col conseguente rischio di una democrazia solo e soltanto formale. Laddove la democrazia socialista pone il problema di un’umanizzazione dei processi e di una fuoriuscita possibile da qualsivoglia alienazione burocratica: lezione che un possibile socialismo dovrebbe costantemente ripensare.