Sulla carta dovrebbe essere un vertice informale, al termine del quale non è previsto che vengano prese delle decisioni. Di fatto quello che comincia oggi a Bratislava tra i capi di stato e di governo dei 27 – il primo senza la Gran Bretagna – potrebbe segnare l’inizio di una nuova Europa in cui il peso dei nazionalismi è destinato a crescere notevolmente.

Il discorso sullo stato dell’Unione tenuto mercoledì a Strasburgo da Jean Claude Juncker ha di fatto segnato la prima vittoria di Ungheria, Slovacchia, Polonia e repubblica Ceca, i quattro paesi del gruppo Visegrad da sempre contrari alle politiche di accoglienza dei migranti e decisi a rivendicare un peso maggiore all’interno dell’Unione. Rinunciando al principio della distribuzione obbligatoria dei profughi tra gli stati membri, e appellandosi invece alla solidarietà degli stessi, il presidente della Commissione Ue ha ceduto alle pretese dei paesi dell’Est al punto da rendere praticamente inutile il referendum contro le quote obbligatorie previsto per il 2 ottobre in Ungheria.

Sarà un caso, ma gli effetti non hanno tardato a farsi sentire. Stando infatti a quanto riportato ieri dall’agenzia Ansa, oggi il blocco di Visegrad sarebbe intenzionato a chiedere una revisione dei Trattati che governano l’Ue allo scopo di togliere potere alla Commissione per restituirlo agli stati. Sarebbe come imboccare a ritroso la strada percorsa fino a oggi, relegando l’istituzione guidata da Juncker a un puro e semplice ruolo di garanzia.

Una proposta che rischia di trovare alleati insospettabili (un anno fa, durante la crisi economica della Grecia, fu il ministro delle Finanze tedesco Wolfang Schauble a ipotizzare un ridimensionamento della Commissione Ue) e che giustamente preoccupa la presidente della Camera Laura Boldrini. «Dopo che i cittadini di uno stato membro si sono pronunciati per l’uscita dalla Ue – ha detto ieri – iniziare a fare queste richieste significa minare il corpo dell’Unione europea in un momento in cui dobbiamo essere capaci di guardare avanti».

Quella che si incontrerà oggi a Bratislava è quindi un’Europa acciaccata e divisa come non mai. Se da una parte ci sono infatti Ungheria, Polonia, Slovacchia e Cechia, dall’altra ci sono i paesi del Mediterraneo reduci dal vertice di Atene e portatori di richieste opposte a quelle di Visegrad per quanto riguarda i temi caldi, dall’economia ai migranti. Senza contare i paesi del nord Europa. Con la differenza che al fianco dei quattro di Visegrad si stanno schierando sempre più spesso anche Austria, Bulgaria e Romania. Colpisce, ad esempio, che mentre Juncker invocava a Strasburgo solidarietà per i migranti, il premier ungherese Viktor Orban ispezionava con il presidente bulgaro Boyko Borissov la rete di metallo innalzata da Sofia al confine con la Turchia proprio per fermare i profughi siriani. «Tutti devono capire che il futuro dell’Europa non si decide a Bruxelles, ma qui», è il messaggio che Orban ha voluto inviare ai colleghi europei.

Che l’aria che tira oggi non sia delle migliori è chiaro anche al ministro degli Esteri Paolo Gentiloni che ieri ha provato a mettere le mani avanti: «Non possiamo accettare che un paese solo si faccia carico delle migrazioni irregolari, pretendiamo collaborazione da Bruxelles ed è uno dei temi che andranno discussi al vertice di Bratislava» ha promesso il titolare della Farnesina, mentre la cancelliera Merkel e il presidente francese Hollande hanno sollecitato una road map per rafforzare l’Ue.

Alla fine è probabile che un accordo sulle questioni di interesse comune come la lotta al terrorismo, il rafforzamento delle frontiere esterne (formula sotto la quale passa anche il contrasto all’immigrazione) e la difesa militare si troverà. Resta da vedere se basterà a superare la «crisi esistenziale», come l’ha definita Juncker, dell’Unione.