Frederick Wiseman ama la sua città, Boston, si capisce da come ne filma le strade, le case, i grattacieli e le abitazioni più antiche di mattoni rossi, dal modo in cui si sofferma sugli alberi un po’ spogliati dall’autunno, dalla luce che cattura nell’orizzonte dell’oceano, dallo sguardo sulle abitudini «banali», il camion dei pompieri o quello giallo della raccolta (attentamente differenziata) dei rifiuti. Ma non è per comporre un’elegia turistica che il regista Leone d’oro alla carriera ha filmato per la prima volta i luoghi dove è nato – con l’eccezione di Near Death (1989) che si concentra però unicamente sul reparto di terapia intensiva del Beth Israel Hospital.

CIÒ CHE RACCONTA il suo nuovo e magnifico City Hall – tra i momenti preziosi di questa Mostra numero 77 – è l’importanza delle istituzioni democratiche americane messe in pericolo dalla presidenza di Trump a cui contrappone il discorso politico del sindaco democratico di Boston, Martin Walsh – rieletto nel 2017 – che si fonda essenzialmente su due punti: resistenza e comunità. Da qui Wiseman procede nel suo racconto, entra nella City Hall, segue i lavori dell’amministrazione, le discussioni sulle presentazioni dei preventivi di spesa, gli incontri con i rappresentanti dei quartieri sui problemi che riguardano Boston e l’America tutta: si parla di sanità, istruzione, dei reduci di guerra e delle loro difficoltà di reinserimento, di tossicodipendenza, delle emergenza abitativa, degli sfratti, di sicurezza. Del rapporto tra polizia e cittadini, dei matrimoni gay, di emarginazione. È la cronaca di questi giorni. Ma cosa cambia qui rispetto ai proclami e ai tweet di Trump, che poi sono le stesse logiche dominanti nel precedente Monrovia, Indiana, piccola città bacino di fedelissimi trumpiani? Il punto di vista a cominciare dalle priorità di chi amministra la cosa pubblica, che sono il rispetto e l’inclusione dei cittadini perché questo è l’esercizio della democrazia che per esistere deve essere allenata.

NON È LA PRIMA volta che Wiseman ne parla, la democrazia e le comunità ritornano nei suoi film – pensiamo a Ex Libris a In Jackson Heights – così come altri lavori si sono confrontati in modo specifico con le istituzioni – ospedali psichiatrici, scuola, welfare – e le loro contraddizioni. Il suo cinema è una grande narrazione corale dell’America che negli anni continua a esplorarne il funzionamento e la rappresentazione. City Hall si concentra su una persona, anche questa è «una prima volta», il sindaco Martin Walsh, al secondo mandato – è stato rieletto nel 2017 – origini irlandesi, cattolico, bambino sopravvissuto al cancro e ex alcolista. Un resistente anche nella vita – forse anche per questo è sempre vicino alle persone, che alla demagogia o alla propaganda delle campagne in grande stile contrappone la cura che nasce dall’esperienza, sin dalle prime scene. Siamo in un meeting col capo della polizia per il piano di sicurezza durante la parata dei Red Sox: «Non facciamo abbastanza per farci capire, per spiegare quello che stiamo facendo», dice il sindaco. La memoria va dagli attentati alla Maratona di Boston nel 2013, la nostra anche a quello che è lo scontro violento tra polizia e persone, le immagini di Floyd soffocato. La sua scommessa è invece andare oltre, mettere le persone al centro e far sì che governare diventi un atto di cui tutti sono e si sentono partecipi nella ricerca delle risposte. Alle infermiere che protestano per avere un numero minore di pazienti – così da garantire la qualità delle cure – dice che è stato grazie a loro se da bambino, quando era malato, è andato avanti. E nei discorsi ai più fragili, gli anziani poveri – in maggioranza african american – che si sono fatti truffare da promesse assicurative, da richieste di carta di credito che ingenuamente hanno dato li rassicura, gli dice di rivolgersi al comune, al suo ufficio, all’intermediario di quartiere da lui voluto con decisione – «È come parlare con me» – di non ascoltare nessuno altro, di attaccare il telefono quando chiamano e di non aprire loro la porta.
Nelle iniziative messe in campo contro gli sfratti, che obbligano i costruttori a non cacciare via le persone dai luoghi – il fondamento di ogni gentrificazione – e stanziano molti fondi per progettare in acquisto delle case alle fasce più deboli, cercando nell’attesa di risolvere quelle contraddizioni di sistema che li metterebbero comunque, nonostante cioè una dichiarata povertà, in strada.

«NOI NON POTREMO cambiare gli Stati Uniti d’America per come l’amministrazione Trump li ha ridotti, ma da Boston possiamo dare un messaggio alle altre realtà locali, ovvero che il cambiamento è ancora possibile, che la democrazia ha ancora un valore sociale», dice a un certo punto il sindaco. Che lui – e tutti coloro che lavorano in quell’amministrazione provano a tradurre in scelte concrete, con la difesa dei diritti civili, dei migranti, dell’ambiente in relazione ai cambiamenti climatici. «Mi sono chiesto se Boston avesse dovuto affrontare un disastro come è stato l’uragano Katrina», dice rivolgendosi agli investitori, la borghesia ricca della città in un meeting, di cui ha bisogno perché i tagli al pubblico sono sempre più alti e Trump ha interrotto le relazioni con i governatori locali. Nella sua visione ogni differenza deve avere un suo spazio, una riposta specifica di inclusione. «Il governo di Boston è l’esatta antitesi di quello che sta facendo Trump», sottolinea Wiseman che l’emergenza sanitaria ha tenuto lontano dal Lido. Con questo film lo ribadisce con forza, in piena campagna elettorale e nella pandemia – pure se ovviamente è stato girato prima. Però al di là delle urgenze poste dalla cronaca, City Hall è un nuovo passaggio in una carriera ormai molto lunga di un cineasta novantenne che si conferma nella sua cifra in continuo movimento. Capace nella relazione con la realtà di far emergere conflitti necessità e lezioni senza mai mettere da parte il gesto del filmare. Anzi rendendolo come il suo sindaco sempre più una forma di resistenza in un fare cinema politico senza dogmi.