Già uscendo dall’aeroporto di Bombay, il chiarore pallido fatto di umidità e inquinamento atmosferico che mi aspettavo avvolge la città e si materializza, tanto da rendere tutto quello che vedo non a fuoco, illumina le cose di una luce smorta, appannata. L’aria, invece, ha uno spessore polveroso e denso, anche la vegetazione ai lati delle strade è esangue mentre viaggio a bordo di un piccolo taxi nero, uno dei tanti che sfreccia nel traffico frenetico, che con i suoni dei clacson sgraziati e perturbanti sono la jam session quotidiana di questa metropoli indiana dai molti primati negativi: è una delle città più inquinate del mondo, e anche quella con la più alta densità demografica, 390 mila persone per chilometro quadrato, con gli slum fatiscenti sotto i grattacieli lasciati grezzi e incompiuti per abusivismo edilizio. Ma questo luogo di luoghi è anche pieno di energia vitalistica, e milioni di poveri già alle prime ore dell’alba si mettono in movimento frenetici alla ricerca disperata di sbarcare il lunario.

Questi piccoli taxi sono un buon osservatorio per attraversare la città, cercare di coglierne il conio, e nei pochi giorni di permanenza ne ho presi parecchi, anche perché sono economici e gli autisti degli ottimi raccontatori, insomma si danno da fare per dirti dove stai in quel determinato momento indicandoti edifici e mercati, o cercando di accompagnarti altrove deragliando per rendere più redditizia la tratta. Mentre viaggiamo verso il centro, e l’autista giovane dai capelli nerissimi e dalle ciglia folte cerca di farsi largo nel traffico, dai quadrati delle baracche costruite a nido d’ape, con piccole celle una attaccata all’altra fatte di materiali diversi, spuntano facce e corpi di uomini e donne che vivono ammassati come formiche pullulanti in zone di città fatiscenti e nauseabonde, senza acqua e fognature; bambini che corrono scalzi e mezzi nudi nelle vie ingorgate, donne con in testa fagotti, uomini atavici che trascinano carri, sono i reietti, due terzi della popolazione, che occupano solo il 5% del suolo della città, mentre quelli più abbienti e capaci di corrompere polizia e politici stanno comodi nel resto. Ma dai tetti di questi sobborghi sporchi e puzzolenti, spuntano centinaia di antenne satellitari, così come i balconi dei palazzi con le facciate annerite sono tutti occupati da panni stesi di molti colori. Sono appena arrivato e già Bombay mi mostra il suo volto sudicio e rovinato. L’aria è piena di polveri, la polvere prevale su tutto il resto, è una polvere che dopo un po’ diventa persino famigliare, copre le strade, sta sopra i marciapiedi dissestati, è sulle superfici delle automobili, arriva prepotente alle narici, e chi è costretto a respirarla soffre di faringite granulare. L’autista mi dice che questa è una città strana, qui molti si ammalano di tifo o di colera per colpa dell’acqua putrida che sta nelle strade, per giunta, metà della popolazione non ha il bagno, quindi si calcola che otto milioni di persone defecano all’aria aperta, per non dire dei topi, anche loro un esercito, che però almeno hanno un pregio, eliminano la parte mangiabile dei rifiuti che impestano i quartieri, anche quelli del centro.

LA MATTINA SEGUENTE, mi sveglio all’alba e prendo un treno dalla stazione di Chhatrapati Shivaji. All’entrata, derelitti dormono per terra, avvolti da coperte logore, un uomo senza gambe si sposta con la sola forza delle mani come una trottola sulla banchina, altri stanno supini dentro i vagoni, la pancia scoperta, i piedi sporchi e feriti, mentre mi siedo nel sedile rigido in formica spartano, e il convoglio parte veloce, le portiere aperte, quasi come quelle di un carro merci, qualche ritardatario corre e salta su all’ultimo momento, e fuori è ancora notte. Sono poche fermate e a Dadar, proprio dietro la stazione e sotto un cavalcavia, è iniziato già il mercato della verdura, su una strada laterale illuminata da luci fioche infestata di rifiuti e cartacce, in terra sono seduti dietro ceste colme di ortaggi centinaia di venditori, accovacciati e quieti, e ragazzi con mazzi dei due maggiori quotidiani freschi di stampa. In terra, in questa colonna di acquirenti che s’ingrossa più passa il tempo e sta per albeggiare, altri venditori ritardatari che arrivano frenetici, trasportando i pesanti fagotti in spalla, mentre avanzo inalando gli odori delle erbe speziate insieme con quelli del fango e delle fogne, e la polvere, l’onnipresente polvere di Bombay, che è la città dove ogni quartiere, ogni piazzetta, ogni via ha i suoi particolari e unici odori e fetori. I venditori ti guardano smarriti, con dolce tristezza mostrano i piccoli grappoli di banane, le zucchine bianche, rimescolano cesti colmi di lunghe carote, e cavoli posati in terra come palle da rugby.

Nella via successiva i piazzisti di fiori, dalla cui ceste spuntano boccioli recisi coloratissimi, vendono anche ghirlande, collane di fiori che mani sapienti intrecciano, e alla fine della via in un baracchino un venditore sta friggendo su una pentola vadapav, dei bignè ripieni. All’alba la città ha ancora una patina sbiadita, il cielo è ancora smorto, privo di luce chiara. Passando per la zona del lungomare, sullo specchio d’acqua una nuvola di smog si alza dal livello del mare e cancella in parte gli alti palazzi di fronte, ma per vedere Bombay bisogna andare nella zona di Crawford market, dove la gente vive sui marciapiedi, e questo margine diventa una casa all’aperto dove si mangia e si dorme all’addiaccio, il barbiere sbarba o taglia en plein air, le capre e le mucche camminano libere, i ragazzini scalzi giocano a cricket con mazze in legno rudimentali bloccando il traffico tra un lancio e l’altro.

SUKETU METHA ha scritto un libro straordinario su questa città che lui stesso definisce «degli eccessi», Maximum city, un prototipo del reportage massimalista, dove come succedeva per i classici del realismo sociale, come a Zola, Dickens e Jack London, riesce ad entrare nel ventre palpitante e putrido della città dove torna a vivere proprio da New York insieme alla sua famiglia con l’intento di raccontarla. Leggendolo, capisci quanto sia temerario, forse impossibile, raccontare i luoghi, decifrarne i sedimentati profondi. La mia piccola percezione è ingigantita dall’esperienza diretta: «Il cibo e l’acqua di Bombay, (…) sono contaminati dalla merda. La dissenteria amebica si trasmette attraverso gli escrementi. Abbiamo nutrito nostro figlio di merda. Può essere stato il mango che gli abbiamo dato da mangiare, o la piscina dove lo abbiamo portato a nuotare. O forse è venuta dai rubinetti di casa», ammette alla fine sconsolato lo scrittore.

DELL’ULTIMO GIORNO, resta tra tutte le cose viste, mentre la sera ritorno in albergo, l’immagine di un uomo magro e molto anziano, seduto per strada, le gambe scheletriche, il corpo gracile come quello di un uccello, un saio nero sudicio che gli lascia liberi gli ossuti arti inferiori, che continua a girare la testa da destra a sinistra, da sinistra a destra meccanicamente, mostrando gli occhi vitrei e arrossati ai passanti, senza allungare la mano per elemosinare, ma tenendola stretta a sè rigida come gli artigli di un iguana, roteando faccia e sguardo, avanti e indietro, instancabile. Mi fa capire semplicemente che la povertà in una città assurda come questa può farti diventare pazzo.