Come accade ogni gennaio, quando l’anno è ancora in punta di piedi, il movimento popolare basco già prende la rincorsa. Ieri, per i diritti dei detenuti e delle detenute, sono scese in piazza centomila persone. A Bilbao sono arrivati oltre 250 autobus provenienti da tutti gli angoli dei Paesi Baschi, anche numerosi solidali dall’Italia e da altri stati europei. Sono passati più di tre anni dalla decisione di Eta di porre fine alla lotta armata. Lo scorso maggio alle elezioni europee, la sinistra indipendentista – raccolta nella coalizione Bildu – si è consolidata come seconda forza politica nella Comunità Autonoma Basca e in Navarra, unendo proposte politiche alternative.

Mentre gli ultimi sondaggi in terre basche danno in traiettoria ascendente Bildu, con Podemos, la cittadinanza vive con sempre maggior disapprovazione l’atteggiamento repressivo dello Stato spagnolo che – dicono – boicotta il processo di pace. Lo scorso dicembre, la Ertzaintza, la polizia autonoma basca, ha fatto irruzione nel tradizionale mercato di Gernika per arrestare la giovane Jone Amezaga, accusata di «apologia del terrorismo» per aver attaccato uno striscione. Di fronte alla resistenza di compagni e amici della ragazza, la violenta attuazione poliziesca aveva causato diverse ferite a un’anziana di 94 anni, evidenziando l’atteggiamento ostile al dialogo delle istituzioni spagnole e il «lavoro sporco» del Partido Nacionalista Vasco.

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Sare – la rete di solidarietà con i prigionieri politici – è stata la principale promotrice della giornata. Nata lo scorso anno, raccoglie cittadine e cittadini con diverse sensibilità politiche ma accomunati dall’impegno per costruire socialmente una risoluzione del conflitto che tenga conto di tutte le sue conseguenze. Chiedono un cambio radicale nella politica penitenziaria adottata dal governo spagnolo: la fine dell’isolamento e della dispersione; la messa in libertà dei prigionieri gravemente malati e sopra ai settanta anni; la fine di misure eccezionali che non rispettano i diritti umani. «Siamo coscienti che la sofferenza derivata da tanti anni di scontro rimane sulla pelle di chi ne ha sofferto le conseguenze – scrivono – però, mentre qui scompaiono le cause di nuove sofferenze, persiste e si aggrava il dolore di migliaia di persone: le detenute e i detenuti baschi, i loro cari e le loro famiglie».

«Bisogna sottolineare questa incongruenza – dice con fervore Iratxe Urizar, avvocatessa dell’Osservatorio basco per i Diritti Umani – tra la direzione che si ostina a prendere il governo spagnolo, con quello basco che gli va dietro, e la cittadinanza che non smette di lottare, tanto per il riconoscimento istituzionale di tutto ciò che ha significato il conflitto, quanto per la fine di queste insensate e persistenti misure d’eccezionalità che si accaniscono sui detenuti».

Ad oggi, sono 463 le detenute e i detenuti politici baschi. Sparsi in 44 prigioni, principalmente in territorio spagnolo e francese. Tra loro ci sono una dozzina di malati gravi, e casi di lungo isolamento totale. Questo, per esempio, il caso di Jon Enparantza, detenuto perché «avvocato di Eta», che vive da più di dieci mesi una condizione d’isolamento totale.

Il corteo è soprattutto una manifestazione civica di vicinanza a chi non solo è privato della libertà, ma anche di diritti fondamentali come la salute. «Sare, come nuovo movimento popolare, spiega Iratxe – s’è fatta promotrice della giornata di lotta, ma a scendere in piazza è un estratto sociale ancora più ampio, che oltre a dimostrare il consenso per la risoluzione sociale del conflitto, rende visibile la tragedia della dispersione per le famiglie, che questo fine settimana rinunciano alle visite per marciare dietro lo striscione». Nell’applicare la politica penitenziaria, il governo spagnolo e francese utilizza la tecnica della dispersione per disintegrare i legami politici e umani dei prigionieri e rimarcare la differenza tra i detenuti sociali e politici. Nella pratica, la dispersione estende la condanna ai cari di chi è dietro le sbarre.

Proprio lo scorso ottobre, ha compiuto quindici anni Mirentxin: una rete popolare di trasporto solidale che, grazie a un’associazione che si occupa di condurre e mantenere dei furgoncini, permette ad alcuni famigliari di visitare i loro cari nelle lontane prigioni dove si trovano.

E solo un mese prima, uno studio realizzato da diversi medici e psichiatri aveva applicato il Protocollo di Istanbul, una metodologia elaborata dall’Onu, alle quarantacinque denunce di tortura di attivisti politici baschi, dichiarandole «veritiere». La commissione contava anche della partecipazione di alcuni esperti dell’Onu per la promozione e protezione dei diritti umani nella lotta contro il terrorismo, Ben Emmerson e Juan E. Méndez, che hanno definito lo studio come un passo in avanti «verso la trasparenza e il riconoscimento dei diritti».

«Ma il governo spagnolo si gira dall’altra parte o ignora completamente anche questi organismi: firmano gli accordi internazionali ma non li rispettano», spiega ancora Iratxe. «Lo scorso sette ottobre, il Tribunale dei diritti di Strasburgo ha condannato per l’ennesima volta il regno di Spagna per non indagare sulle denunce presentate dai cittadini baschi, Oihan Ataun e Bea Etxebarria. Così siamo giunti a cinque condanne emesse da questo tribunale contro il governo spagnolo e in difesa di cittadini baschi».

Nello sguardo della giovane Iratxe si legge lo spirito della manifestazione, con appassionata determinazione ci tiene a precisare che la denuncia della giovane attivista ha colpito molto per la brutalità dei fatti. «Beatriz Etxebarria denunciò al Cpt (Committee for the Prevention of Torture, del Consiglio europeo) di essere stata aggredita sessualmente durante le prime ore dell’arresto, quando le assurde misure d’eccezionalità permettono di tenere il detenuto senza contatti con nessuno». Invece, Oihan Atun, l’altro prigioniero che ha presentato la denuncia, ancora deve essere processato.

Per il fiume umano che scende verso la parte storica di Bilbao, si incrociano mille correnti. Dall’allegra ribellione delle ragazze più giovani, alla fermezza incallita dei nonni col baschetto; dalla curiosità dei bambini che si guardano intorno dal passeggino alla compostezza delle anziane donne che nascondono tenerezza.

Sono i mille volti solidali di questi indigeni d’Europa; sono le facce della complessità, della pluralità e della molteplicità di un movimento che riesce a farsi popolo in un corteo, delle sue nuove sfide in questo nuovo ciclo che si è aperto. Sorridendo emozionata arriva Nerea. «Perché noi giovani attivisti baschi siamo cresciuti in una situazione d’eccezionalità. Siamo arrivati a ritenere normali cose che sono assurde: per ultimo il processo a ventotto giovani accusati di appartenere a Segi», la vecchia organizzazione giovanile basca. «Li abbiamo accompagnati a Madrid al processo, e per fortuna alcuni già sono stati dichiarati innocenti. Ma per altri sedici ancora deve arrivare la sentenza. È un continuo trauma, per noi, per le nostre famiglie, per ciò vogliamo con determinazione che finisca questa situazione repressiva».

Mentre si guarda intorno orgogliosa per la partecipazione, Nerea, che ha ventidue anni, spiega: «Non mi sento nazionalista, ma indipendentista e per questo rivoluzionaria, come i giovani curdi che oggi combattono a Kobane per la loro indipendenza». Più parla, più crolla la timidezza che si trasforma in fervore.

«Si è aperto un nuovo ciclo e dobbiamo continuare a lottare, perché siamo orgogliosi della nostra storia di sinistra e volenterosi per il nostro futuro».

L’ottobre scorso, Adolfo Pérez Esquivel – l’argentino premio Nobel per la pace – ha dichiarato che mantenere in prigione Arnaldo Otegi (leader storico della sinistra indipendentista) e i suoi compagni del partito socialista Herri Batasuna (Unione Popolare), reso illegale nel 2003, rappresenta una «offesa contro l’umanità».

Mentre in un altro delicato processo di pace, quello colombiano, il negoziatore della Farc ha lanciato un monito: «La pace non è il silenzio dei fucili». Lo sa bene chi lotta per la liberazione nazionale e sociale nei Paesi Baschi. Qui dietro, nell’Europa liberale, dove spesso dietro lo Stato di diritto si cela il diritto dello Stato a castigare il cambiamento.