Non sono vuote le strade di Betlemme. Nel fine settimana il lockdown dovrebbe essere totale ma è Pasqua e chi ha un negozio ha scelto di tenerlo aperto. «In questi giorni vendo qualcosa di più e non posso perdere l’occasione», ci dice Abu Mahdi, proprietario del minimarket «Rotana» tra Betlemme e Beit Jala. Si interrompe, abbassa la mascherina e aspira forte la sigaretta. «Certo – aggiunge – non è paragonabile a quanto vendevo prima del coronavirus ma porto un po’ di soldi a casa. Resisto, non posso fare di più». Un poliziotto in sella a una moto transita davanti a noi, getta uno sguardo veloce, poi accelera. «La polizia non osa imporci la chiusura, sa che siamo allo stremo», ci dice Abu Mahdi salutandoci in tutta fretta scorgendo con la coda dell’occhio due signore che stanno entrando nel negozio.

È una Pasqua dimessa per Betlemme e per tutti i suoi abitanti. Altrettanto si annuncia il mese islamico di Ramadan che comincia tra una decina di giorni. Il governo palestinese ha comunicato l’allentamento della chiusura fino al 12 aprile ma non può ancora autorizzare una apertura ampia. La circolazione del virus resta elevata in Cisgiordania come a Gaza. Venerdì sono stati registrati altri 2248 casi positivi e 16 decessi. Preoccupa Gaza che nei giorni scorsi ha visto un’impennata inaspettata di infezioni. Nei Territori sono 204 i pazienti in terapia intensiva, di cui 63 attaccati ai respiratori. Il problema è che mancano i vaccini per gli oltre cinque milioni di palestinesi sotto occupazione israeliana. Le dosi che hanno ottenuto sinora – tra donazioni (cinesi, russe ed emiratine) e quelle del programma Covax dell’Oms – sono poco più di 200mila. Fino a due giorni fa 89.933 persone avevano ricevuto la prima dose e 10.146 anche la seconda.

Betlemme dista pochi chilometri, più o meno cinque, dal centro di Gerusalemme dove, al contrario, la Pasqua non è a porte chiuse. La vaccinazione di massa eseguita da Israele ha fatto crollare i numeri del contagio e dei decessi a quelli minimi della scorsa estate e il paese è tornato quasi alla normalità. Già la Pasqua ebraica aveva visto folle nelle strade e le celebrazioni di quella cristiana si sono svolte senza restrizioni particolari anche se con una presenza ridotta di fedeli e con le precauzioni anti-Covid. Mancano i pellegrini e i turisti stranieri ma il turismo locale è in sensibile ripresa. Ossigeno puro che non è arrivato in Cisgiordania. Il quadro potrebbe migliorare anche lì se solo Israele usasse una parte delle sue dosi in eccedenza per vaccinare i palestinesi sotto la sua occupazione. Per ora ha inviato a Ramallah poche migliaia di fiale e ha vaccinato solo gli oltre 100mila manovali cisgiordani che ogni giorno per lavoro entrano nel suo territorio o nelle sue colonie ebraiche.

«Non è cambiato nulla da Natale a oggi» esordisce Doha Bandak, manager del Grand Hotel di Betlemme, che incontrammo prima delle festività natalizie. «Siamo sempre chiusi come tutti gli hotel» ci ribadisce «e non prevediamo alcuna novità positiva». D’altronde, aggiunge Bandak, «il contagio qui non cala nonostante le chiusure e ogni giorno apprendiamo di conoscenti e parenti che si sono infettati e di nuovi decessi». Secondo la manager la ripresa del turismo in Israele non avrà effetti su Betlemme. «Forse – prevede – arriveranno un po’ di palestinesi della Galilea ma per un tour veloce, non resteranno qui a dormire».

Walid Mutran abita alla periferia di Doha, un sobborgo di Betlemme. È uno dei circa 5mila palestinesi bloccati dalle restrizioni, rese più rigide dalla pandemia, alle partenze dalla Cisgiordania verso altri paesi. «Lavoro a Milano. All’inizio del 2020 rientrai a Betlemme per far visita alla mia famiglia e da allora non sono più riuscito a tornare in Italia» ci racconta «i voli sono pochi, costosi e non diretti e non riesco a ottenere i permessi per l’ingresso nei paesi di transito». Mutran, che non ha più un lavoro e un reddito, è disperato. Critica l’Autorità nazionale palestinese. «Il nostro governo ripete di non avere fondi ma noi sappiamo di tanti suoi funzionari e dipendenti che ricevono lo stipendio senza svolgere alcun incarico. Quei soldi dovrebbero darli ai tanti come me che non possono comprare nemmeno il pane».