I personaggi dei suoi romanzi sono fieri sikh che continuano a nascondere i lunghi capelli sotto il turbante ma masticano ormai da una vita l’inglese come fosse cartavetrata, con l’accento scontroso e asciutto del profondo Yorkshire. O sono giovani asiatiche che escono di casa indossando i castigati abiti tradizionali per poi cambiarsi nel primo bar per mettere leggins aderenti e magliette scollate. Oppure sono come il detective della omicidi Hardeep Virdee, per tutti semplicemente Harry, e sua moglie Saima, sikh il primo e musulmana la seconda, che per il solo fatto di amarsi, contravvenendo alle rigide norme non scritte, ma non per questo meno implacabili, che dividono in modo irriducibile le due comunità, hanno messo tutto in discussione e sono stati rifiutati dai propri cari.

Del resto, a fare da sfondo alle storie di (Amit) A. A. Dhand, lo scrittore britannico di origine asiatica di cui nel nostro Paese sono già stati pubblicati La ragazza zero e, di recente, La città del peccato (pp. 364, euro 19, traduzione di Maria Baiocchi e Anna Tagliavini), entrambi per Sem, è Bradford, il centro dello Yorkshire occidentale già considerato la capitale dell’industria tessile e divenuto negli ultimi decenni uno dei simboli dei conflitti comunitari, del razzismo e delle derive fondamentaliste che attraversano la società britannica.

Un contesto fatto di emarginazione, povertà e violenza, ma anche dell’affiorare di nuovi conflitti che ruotano intorno alla razza, all’identità e in parte alla religione, che con grande maestria Dhand, cresciuto in questa città e arrivato alla scrittura dopo diversi lavori e un lungo soggiorno a Londra, ha messo al centro di una serie di noir sorprendenti e affascinanti dove i crimini dei singoli interrogano sempre la realtà circostante, si tratti di serial killer come di ex membri del neonazista British National Party, di giovani in procinto di avvicinarsi al terrorismo o di piccoli caid che impongono i propri voleri con la forza alle famiglie di immigrati. Con uno sguardo che attinge all’immaginario letterario come a quello della scrittura delle serie tv, Dhand costruisce così per molti versi il racconto criminale della Gran Bretagna di oggi, senza negarsi al termine di ogni indagine, per quanto dura e pericolosa sia, un sano respiro di ottimismo. Costi quel che costi.

A. A. Dhand

Bradford non è una città qualsiasi in cui ambientare un romanzo. Nei suoi libri la gloria del passato sembra riemergere in mezzo all’oscurità del presente. Fino a che punto il destino di questo centro si intreccia con la scelta di scrivere noir?
Bradford ha una storia incredibile: solo cento anni fa era una delle città più ricche d’Europa, uno dei centri simbolo dello sviluppo industriale del Paese, ma poi negli ultimi decenni è progressivamente precipitata, avvolta in un cupo declino accompagnato da violenza, razzismo, intolleranza. La città fa ancora fatica a riprendersi da tutto ciò, ma diciamo che sta cominciando a farlo. Ed è questo destino, fatto di cadute e possibili riprese, ad essere intrecciato saldamente al profilo di Harry Virdee. Entrambi, il detective come Bradford, fanno i conti con il loro ingombrante passato, si misurano con un presente complesso e cercano di comprendere ciò che il futuro potrebbe ancora riservargli. Harry percepisce come l’anima della città sia andata in frantumi come è accaduto anche a lui personalmente e cerca di cogliere i segnali di una possibile redenzione che lo riguardi, ma che coinvolga anche l’intera Bradford. E, di fatto, è questo il tema che esplorano tutti i miei romanzi.

Harry Virdee non è solo il primo detective asiatico del noir britannico, ma sembra condurre costantemente due battaglie: una per proteggere i più deboli, l’altra per far vincere la giustizia su ogni tradizione e legge non scritta che regola la vita nelle diverse comunità. Da cosa nasce questa sua attitudine?
Quando ho cominciato a pensare al personaggio di Harry mi sono reso conto che si trattava del primo detective asiatico del noir britannico, in letteratura come al cinema. E ho immaginato che potesse abbandonare i cliché con i quali sono spesso rappresentati gli asiatici nei media o nei romanzi per rivendicare il suo essere inglese, orgoglioso del suo Paese come della sua città. Alle tradizioni e alle appartenenze comunitarie antepone i valori britannici di tolleranza, democrazia e accoglienza, per questo per lui è così importante battersi per far trionfare la legge in qualunque contesto, a cominciare da quello nel quale si muove: la sua stessa comunità d’origine. E lo stesso fa sua moglie Saima, asiatica e musulmana ma che non per questo si sente meno inglese. Anche lei non ricorda nessuna delle donne musulmane di cui si legge abitualmente nella narrativa britannica.

Da questo punto di vista, i suoi personaggi sembrano offrire una risposta pragmatica al dibattito sulla crisi del multiculturalismo che attraversa la Gran Bretagna. Harry e Saima sono convinti che per tutti vigano le stesse leggi e che non esistano ambiti nei quali i diritti sono banditi. È la sua visione di come si deve vivere nel Paese?
Certamente, Harry e Saima sono convinti, proprio come me, che quando le comunità condividono spazio, tempo, cibo, amore e risate, le nozioni preconcette e i sentimenti di odio e intolleranza inizino a svanire. Ovviamente non è sempre facile, ma dobbiamo lottare perché le persone non vengano messe le une contro le altre. L’amore vincerà l’odio: potrebbe non essere facile, ma niente per cui valga la pena combattere è mai facile. Questo è il modo di pensare di Harry e Saima: il codice secondo cui vivono è che l’eredità e i peccati dell’Impero coloniale britannico non possono continuare a decidere del modo in cui le persone si trattano e si percepiscono a vicenda ancora oggi. Non ci sono tradizioni che tengano: se accettiamo che il fatto di essere cittadini di questo Paese ha a che fare con la tolleranza e la democrazia, allora noi, come britannici di origine asiatica, dobbiamo abbracciare fino in fondo quei valori e chiedere a noi stessi di applicarli alle nostre vite. Le tensioni interreligiose e l’iperbole identitaria devono lasciare il posto al dialogo e alla comprensione reciproca. Ed è questo che Harry e Saima tentano di fare.

Bradford è stata a lungo attraversata dal razzismo e dalla violenza e solo pochi anni fa un giornale la definì come «uno dei posti peggiori dove vivere in Gran Bretagna». Cosa significa combattere per la giustizia in un tale contesto di povertà e emarginazione?
È una sfida impari, ma anche in una situazione del genere resta assolutamente spazio per la redenzione, perché le cose possano cambiare. Nel mio primo romanzo, Street of Darkness (2016) – inedito in Italia – descrivevo la città come «il pozzo nero dello Yorkshire». Oggi non scriverei più una frase del genere, ma all’epoca provavo una grande rabbia per come Bradford era stata abbandonata al suo destino. Si era deciso di riqualificare il centro cittadino e intere zone erano state quasi del tutto rase al suolo, poi però è arrivata la crisi economica e così il progetto è rimasto bloccato per anni. Avevano appena finito di buttare giù le case quando hanno cominciato a tagliare i servizi, a cominciare da quelli destinati ai giovani. A quel punto è sembrato a tutti che la città fosse stata dimenticata. Ovunque andassi, in tutta la Gran Bretagna, Bradford era diventato sinonimo di tensioni razziali e di un sistema sociale e economico al collasso. Ora però, pian piano, le cose stanno migliorando. Ci sono aree della città che si sentono segregate, ma ci sono anche persone che lavorano in questi spazi per unire le comunità che si sono a lungo contrapposte. Si potrebbe fare di più, ma è già importante che ci si renda conto che l’unica via per far risorgere davvero la città è garantire che tutti i suoi abitanti e tutte le comunità che vivono qui siano investite da questo processo, sentano di farne parte.

 

Da scrittore, e prima ancora da lettore, quale è stato il suo rapporto con i classici del noir britannica che hanno dei protagonisti quasi esclusivamente bianchi?
Sono cresciuto dietro la cassa del piccolo negozio di alimentari dei miei genitori che era anche una sorta di «videoteca-libreria», quindi il mio amore per questo tipo di storie è nato prima con i film e poi con i libri, quando da ragazzo ho fatto la straordinaria scoperta che i film che amavo di più erano spesso tratti da dei romanzi. Come lettore sono passato direttamente dai racconti per ragazzi di Enid Blyton alle storie di Stephen King e Thomas Harris. Quindi in realtà il mio rapporto con i classici britannici è quasi inesistente perché mi sono innamorato molto presto degli scrittori americani, dell’horror e del poliziesco. E del colore della pelle dei personaggi ho cominciato ad interessarmi solo molto più tardi, quando ho cominciato a scrivere a mia volta.

Per il personaggio di Harry si è ispirato a qualcuno in particolare?
In realtà più a figure delle serie tv e del cinema che a protagonisti di romanzi. Penso spesso che Harry sia molto simile a Luther o a Jack Bauer di 24, ma ricorda anche Il cavaliere oscuro e, del resto, la città di Bradford non può che far pensare a Gotham.