Con tutta la rabbia, con tutta la dignità. Per chiedere di essere ascoltati, perché c’è una parte d’Italia sommersa dalle macerie di un terremoto dimenticato, passato di moda troppo in fretta nella gerarchia del dibattito pubblico e delle decisioni politiche. Ieri mattina quasi cinquecento persone provenienti dal cratere del sisma del Centro Italia hanno manifestato sotto la pioggia di Roma, davanti a Montecitorio. Tamburi, fischietti, cartelli, oltre che ombrelli per ripararsi dall’acqua che cadeva dal cielo: quasi tre anni dopo le scosse, nel fazzoletto di terra a cavallo tra le Marche, l’Umbria, il Lazio e l’Abruzzo, quasi nulla è cambiato. Tutte le promesse fatte in campagna elettorale sono svanite, tanto che alla viglia delle elezioni europee sono stati pochissimi i candidati che hanno trovato il coraggio di farsi vedere tra i borghi terremotati. «Non abbiamo governi amici» è lo slogan della protesta organizzata dal Coordinamento dei comitati del cratere, che riunisce un centinaio di territori sparse tra i 140 comuni ancora nel bel mezzo di un disastro che nessuno appare in grado di risolvere. «Vogliamo solo ricostruire – dice la voce che esce dal megafono -, ma i soldi che avevano promesso dove sono? Dove sono i provvedimenti annunciati? Dov’è il decreto per il Centro Italia?». Le ultime novità, in realtà, sarebbero contenute nel decreto Sblocca Cantieri, ma si tratta di minuzie, dettagli che non risolvono nulla, tanto che solo al Senato sono piovuti più di mille emendamenti sul tema.

È la strategia dell’abbandono: nulla si muove da troppo tempo, l’Appennino appare ormai destinato allo spopolamento, senza ricostruzione, senza prospettive, senza nemmeno un’idea di futuro. Sono passati 900 giorni dalle scosse, e tre governi, tre commissari, due capi della protezione civile. È cambiato tutto ma non è cambiato niente.