Nove anni fa crollava il Rana Plaza, l’edificio di otto piani in cui lavoravano migliaia di lavoratrici stipate in 5 fabbriche fornitrici dei principali marchi della moda internazionale, due certificate come sicure dalle società di audit TÜV Rheinland e Bureau Veritas. Ma non lo erano affatto, al punto che il giorno prima della tragedia alcune lavoratrici si accorsero delle crepe nei muri e non volevano entrare, avevano paura. La paura per la vita fu sopraffatta da quella di perdere il magro salario, visto che i boss minacciarono di non pagarle, se non fossero andate al lavoro. Non tornarono a casa. Il crollo del Rana Plaza causò 1.138 vittime e migliaia di feriti, tirati fuori per settimane dalle macerie, insieme alle etichette che dimostravano il coinvolgimento di almeno 30 marchi internazionali. Senza queste prove, recuperate scavando a mani nude, non si sarebbe potuta ricostruire la catena di fornitura e delle responsabilità per quanto accaduto.

Una ricostruzione dolorosa ma necessaria a corroborare l’intensa campagna internazionale che gli attivisti insieme ai sindacati internazionali, hanno portato avanti per ottenere due accordi storici per il risarcimento delle vittime e per la sicurezza degli edifici. Al suo terzo rinnovo, il nuovo Accordo Internazionale per la salute e la sicurezza nel settore del tessile e dell’abbigliamento ha visto la luce nel settembre 2021, tre mesi dopo la scadenza del predecessore grazie all’ennesima campagna di pressione pubblica per smuovere lo stallo negoziale causato dalle imprese per diluirne la portata e l’efficacia. Oggi è stato siglato da 171 imprese ma sono ancora troppe quelle che dovrebbero sottoscriverlo, operando in paesi ad alto rischio. Nel nono anniversario del Rana Plaza, la Clean Clothes Campaign punta i riflettori su Ikea e Levi’s, che utilizzano fabbriche sottoposte al programma di monitoraggio indipendente dell’Accordo senza però versare un euro. Si definiscono freeriders, attori economici che approfittano di situazioni vantaggiose ottenute grazie agli sforzi finanziari e politici altrui.

Come rivela il caso di un fornitore di Ikea dal 2007, dove la prima ispezione dopo il crollo del Rana Plaza aveva evidenziato diverse violazioni della sicurezza trascurate dal sistema di monitoraggio dell’azienda: la mancanza di porte ignifughe, la presenza di serrature su alcune delle porte di uscita, le crepe nei muri. Nel 2008 l’audit di Ikea aveva identificato i cablaggi elettrici difettosi come un rischio per la salute e la sicurezza ma l’ispezione del 2014 condotta dall’Accordo non aveva riscontrato alcuna soluzione in merito. Problemi poi risolti grazie al lavoro svolto dall’Accordo internazionale e senza il contributo di Ikea. O ancora il caso di un fornitore di Levi’s, dove gli ingegneri avevano trovato colonne portanti dell’edificio corrose e l’impianto elettrico in pessimo stato, senza evidenza di regolari ispezioni. Di nuovo, i problemi sono stati risolti nei tre anni successivi grazie all’Accordo internazionale, senza che Levi’s contribuisse. Ciò che rende efficace l’Accordo Internazionale rinnovato nel 2021, al contrario degli audit commerciali tanto in voga, risiede nelle sue opposte caratteristiche: esso è giuridicamente vincolante, indipendente, trasparente, con una governance paritaria tra sindacati e imprese e un meccanismo protetto per i reclami dei lavoratori.

Se in questi anni la sicurezza per 2 milioni di lavoratori in 1.700 fabbriche in Bangladesh è molto migliorata, lo si deve ad un cambio netto di modello di ispezione e prevenzione del rischio, che prelude efficacemente agli obblighi di due diligence sui diritti umani nelle catene di fornitura attualmente al vaglio della Commissione Europa, la quale sta lavorando ad una Direttiva che interesserà tutte le imprese, non solo quelle del tessile. Quello sulla sicurezza è un processo continuo che non può essere delegato ad approcci volontari e unilaterali. Perciò è vitale che tutti i marchi che si riforniscono in Bangladesh firmino l’Accordo il più presto possibile. Attiviamoci per spingerli a farlo. Oltre a Ikea e Levi’s, altri giganti come Gap, Target, VF Corporation (The North Face), Auchan e Walmart hanno il dovere di assumersi le proprie responsabilità.

L’autrice è coordinatrice Campagna Abiti Puliti