Johannesburg, Sudafrica. 1981. Ero giovane, quindici anni appena. Catapultato «laggiù», dal 1978, nel bel mezzo di un Paese in cui vigeva l’apartheid. Io, italiano, «romano de Roma», figlio di diplomatici ho visto tanto, troppo; veramente troppo. Autobus per soli bianchi, parchi per soli bianchi, bagni pubblici per soli bianchi, panchine per soli bianchi, supermercati per soli bianchi, scuole per soli bianchi, ristoranti per soli bianchi, ospedali per soli bianchi, piscine per soli bianchi: tutto per soli bianchi. Migliaia le scritte, «Europeans only», ovunque. Vengono i brividi a ripensarci, cartelli con «Soltanto per Europei», in Africa! Impressionante pensarlo oggi a 51 anni. E il resto? «Non-white only», soltanto per non bianchi. Questa era la distinzione netta e chiara. Una legge a supportarla: l’apartheid.

Sì, faceva molto strano vedere una fermata dell’autobus unicamente per bianchi e, poi – appena venti metri più in là -, un’altra per i neri. Due vite distinte, all’interno dello stesso Paese. Due vite a respirare la stessa aria, ma non gli stessi diritti.

Vivevo al numero 36 di Graham Road, quartiere bianco di Wychwood, a pochi chilometri di distanza dal centro di Johannesburg. Soweto, invece, città fantasma costruita con latta e fango, era più lontana.

I «negri» bisognava lasciarli in disparte, soprattutto al calar della notte. Lì, – nella bidonville ideata e creata ad hoc dagli afrikaners -, loro non potevano nuocere. L’apartheid era una realtà strampalata, perché – paradosso che soltanto chi ha vissuto quegli anni sudafricani conosce – vigeva un altro «apartheid», quello fra bianchi: gli italiani odiavano i portoghesi, i portoghesi gli spagnoli, gli spagnoli i tedeschi e così via. L’odio porta odio, non c’è nulla da fare; così è sempre stato e così sempre sarà. E con l’odio non si vince mai…

Ma ero giovane, andavo a scuola e amavo il calcio. E quest’amore mi permise di andare oltre la stupidità e l’ignoranza, di conoscere un mondo sconosciuto ai più.

A scuola si giocava un campionato interscolastico e la nostra squadra – quell’anno – arrivò in finale. Le partite venivano disputate il mercoledì pomeriggio, su campi in erba perfetti: io giocavo in attacco. Quanto mi piaceva fare gol! Ma anche quei campionati avevano lo stesso grande limite: bianchi a sfidare bianchi e basta. Stessa divisione anche nello sport, due mondi diametralmente opposti. D’altronde, le scuole questo permettevano: che fossero frequentate da bambini e ragazzi di etnia caucasica. Punto.

Successe, però, che con il mio amico Gary Carris – sudafricano d’origini olandesi, bianco, biondo e con gli occhi azzurri – compagno di classe e di squadra, s’era deciso – in maniera «legalmente» imprudente, ma guidata dal coraggio dell’adolescenza – d’andare a giocare a pallone in «un altro campionato», la domenica mattina.

Aspettavamo insieme, lui ed io, alla fermata dell’autobus il primo mezzo che ci portasse verso Alexandra, altra bidonville costruita dai bianchi per i “negri”. Arrivati al capolinea, camminavamo ancora per qualche chilometro, io già con gli scarpini e lui scalzo. Quel campetto con poca erba e tanta polvere, lui in porta ed io sempre in attacco, dei ventidue a rincorrere un pallone, due soli bianchi in campo, e tutt’intorno un “oceano nero” ad assistere al match. Mai una sola volta – durante quel Non-White campionato – fummo denigrati, umiliati, offesi, maltrattati o minacciati. L’accoglienza da parte di chi – in quel tristissimo e dolorosissimo periodo d’apartheid – subiva continui soprusi ed ingiustizie, fu sempre straordinaria. Anche quando Gary faceva una papera o io mi mangiavo gol clamorosi, loro continuavano ad incitarci. Sempre. Vivevamo quelle domeniche mattina con meravigliosa serenità.

Io ero the italian scorer, mentre tutto il resto non aveva importanza. Poi, salutati i nostri fratelli africani, Gary e io tornavamo a casa verso ora di pranzo, raccontando sempre la solita bugia ai nostri genitori: «Al parco ci siamo divertiti un mondo!». Ovviamente, noi al parco per Europeans only non c’eravamo stati: avevamo invece avuto la fortuna d’essere accolti a braccia aperte all’interno di un altro mondo.

Oggi, a distanza di tantissimi anni, quelle partite rappresentano il ricordo più bello del mio tempo in Sudafrica.