Il titolo Il Tempo. Le Parole. Il Suono (Artist First) è di suo molto evocativo specialmente per una band come i 99 Posse. Perché da più di 25 anni rappresentano un potente connubio di musica e politica, perché nel 2001 sembravano essersi detti addio per sempre, perché dopo 26 anni sono diventati più consapevoli senza abbassare lo sguardo verso le problematiche della società e della loro Napoli.

A rispondere è il cantante Luca Persico, ‘O Zulù: «La ripartenza è stata Cattivi guagliuni del 2011, un disco molto scuro e intimo. Avevamo iniziato a scrivere quello che adesso è l’ultimo album ma poi l’abbiamo interrotto per il compleanno del primo disco». Qualcosa è cambiato, i testi sono meno d’impeto, settati su una comunicazione più figurata: «Ho avuto sempre un rapporto conflittuale con la scrittura, pochi mesi dopo la nascita di mio figlio, a 42 anni, ho sentito il bisogno di scrivere. Mi capita di sentirmi colmo, prendo la penna, la guardo muoversi e vedo che avevo delle cose da dire che escono senza regia».

La vita personale, anche travagliata, di Luca è presente nel disco ma c’è un elemento che anni fa difficilmente si sarebbe attribuito ai 99: l’amore. Dentro ai tuoi occhi parla certo di suo figlio ma di tutti i figli: «È un disco dove ci sono anche io, dei tanti anni di musica e di attivismo politico, delle responsabilità di avere un figlio, della società che mi circonda e dei suoi mali». Sedici pezzi, vari idiomi, le collaborazioni di Rocco Hunt e Lo Stato Sociale. Le contaminazioni non li hanno mai spaventati ma questo album sembra anche un omaggio alla musica: «Le contaminazioni sono il nostro tratto distintivo, la canzone Combat Reggae descrive come la musica ti possa salvare (il video è girato nei vicoli di Napoli, ndr) da un destino che sembrava scritto per te. La musica è stata lo sliding door da cui, fortunatamente, non siamo più tornati indietro».

Luca racconta di «quella cosa fricchettona che è la magia» che in questo disco, più che mai, è riuscita ad amalgamare musica e parole in modo quasi naturale, e porta l’esempio di Vocazione rivoluzionaria con Enzo Avitabile. Le loro canzoni militanti hanno affrontato i temi del lavoro, dei diritti e della povertà, ma si sente un cambiamento: «Il panorama italiano s’è adattato alla superficialità, dove si urla a vuoto e ci si arrabbia con un nemico che dopo 5 secondi cambia per un altro. Tutto ciò non è supportato né da una storia né da un ragionamento ma solo dall’opportunità di potersi esprimere. Tanti anni fa abbiamo cominciato a urlare, oggi possiamo abbassare la voce anche solo per distinguerci e, senza attirare l’attenzione, lavorare sull’identità. Quindi chi siamo, perché gridiamo, con chi vogliamo costruire? Sia chiaro: non dico basta gridare, chi lotta è giusto che alzi la voce».

Molto spesso sono stati confusi come portavoce dei movimenti: «Più che cattivi maestri siamo cattive compagnie, siamo dei fratelli. Non vendiamo una formula per fini elettorali, semplicemente raccontiamo una vita di devianza che abbiamo anche pagato. Diventare simboli di un mondo molto più complesso di noi ci ha fatto passare per gente che strumentalizzava il movimento. Ogni tanto ci teniamo a ricordare che siamo esseri umani in mezzo ad altri esseri umani che raccontano la loro storia».