Il 15 aprile 1930 a Panama City, una troupe statunitense della Victor Records si appresta a incidere una formazione locale di tamborito, una musica tradizionale panamense dal tono allegro, dove a una voce femminile che intona la melodia fa da contrappunto un coro di donne, a cui si aggiungono percussioni e altri strumenti. L’atmosfera creata dalla formazione Grupo Istmeño, è solare e coinvolgente e non crediamo di fare una forzatura immaginando gli ingegneri intenti a registrare, seguire soddisfatti il tempo delle quattro canzoni eseguite dal combo. Una in particolare, Coge el pandero que se te va, è davvero elettrizzante, complice il suono di tromba avvolgente in apertura che precede l’ingresso armonioso delle voci. Chissà se i tecnici, ammaliati dall’esecuzione, riuscirono a comprendere che il testo conteneva una spiccata attitudine anticoloniale, particolarmente nel verso «Se non ce ne andiamo, ci cacciano fuori, quei figli di zio Sam». Perché quel canto di protesta, targato 1912, raccontava dell’allontanamento forzato della popolazione locale, circa quarantamila persone, eseguito durante la costruzione del Canale di Panama.

SOLO IN DIGITALE
Questa è una delle cento storie, a cui si riferisce un eguale numero di brani presenti nella raccolta Excavated Shellac: An Alternate History of the World’s Music, pubblicato da Dust-to-Digital e disponibile esclusivamente in versione digitale. È il frutto della ricerca puntuale e appassionata del curatore statunitense Jonathan Ward: ogni traccia proviene da dischi a 78 giri in gommalacca, i quali devono il nome al principale componente di costruzione, una sostanza organica proveniente dalla secrezione di un coleottero del sud-est asiatico. Questo tipo di supporti dominarono il mercato durante la prima metà del secolo scorso, fino a quando vennero soppiantati da quelli in vinile nel secondo dopoguerra. Tale vicenda assieme a quelle legate alla loro registrazione, vendita e distribuzione è minuziosamente vergata nel libro di centottantasei pagine incluso nell’opera. E il perché Ward sia giunto alla creazione del tutto, lo si comprende gettando uno sguardo alla sua gioventù, trascorsa in immersione totale nella musica, nell’abitazione di famiglia collocata su una strada sterrata che porta dritta all’oceano Atlantico. Il ricercatore nasce in una minuscola isola, distante tre miglia dalla città di Boston, chiamata Martha’s Vineyard, dove cresce tra strumenti musicali e dischi di ogni genere dei genitori. Ascoltare musica tra le mura domestiche diviene quindi l’occupazione principale nel tempo libero: «Ero il più giovane della casa e molto presto sono diventato l’ascoltatore». Così Ward rammenta la sua precoce iniziazione musicale, che lo vede comprare a tredici anni Trout Mask Replica di Captain Beefheart grazie agli spiccioli guadagnati con dei lavoretti estivi, mentre si innamora di un brano classico come L’histoire du soldat di Stravinsky nella versione dei Boston Symphony Chamber Players.
Con nomi del genere, l’istigazione alla conoscenza della diversità, alla curiosità e alla scoperta di suoni nuovi diviene un vero e proprio modus operandi, che in età adulta lo spinge oltre gli acquisti giovanili nei negozi di dischi del Massachusetts, molto più in là. Con il trascorrere del tempo, lo statunitense concentra l’attenzione sulla musica dal mondo a 78 giri di cui diviene un patito collezionista prima e uno studioso poi. Resosi conto di essere davanti a una enorme mole di musica, che prende il via agli albori del Novecento con l’avvio dell’industria discografica in gommalacca, Ward scopre che esistono e sono rintracciabili centinaia di migliaia di registrazioni tradizionali, folkloriche e vernacolari realizzate al di fuori degli idiomi occidentali dominanti.
E sceglie durante i primi anni Duemila, come altri music lover sparsi in giro per il mondo, di renderle accessibili grazie al sorgente ed affascinante mondo di internet: «Ho aperto il sito Excavated Shellac nel 2007 come punto di contatto per la messa in comune di registrazioni che altrimenti non sarebbero state disponibili. Volevo “fare qualcosa” con quanto conservavo: non ero soddisfatto di possedere dischi senza condividerli. E poi volevo offrire altro rispetto ai suoni country, blues, jazz, r’n’b e classica, già facilmente rintracciabili ovunque. Mi dedicai anche alla scrittura di testi introduttivi, ma senza velleità, in quanto non sono un giornalista. Ma nell’arco di un anno, gli articoli di spiegazione crebbero in lunghezza, includendo molteplici informazioni su artisti, stili, prime incisioni in giro per il mondo e sull’industria. E proprio di quest’ultima compresi che volevo mostrarne l’importanza planetaria, quanto fosse travolgente la storia della registrazione se messa in una prospettiva globale».

UN GRAMMY
L’attività di Ward non passa inosservata e in breve entra a contatto con April e Lance Leadbetter di Dust-to-Digital, per conto della quale cura varie pubblicazioni, tra cui il cofanetto Opika Pende: Africa At 78 RPM che ottiene una nomination ai Grammy Awards del 2012, nella categoria Best Historical Album. Il riconoscimento lo spinge verso la pianificazione del progetto attuale, grazie alla consapevolezza di una idea di ricerca non ordinaria che lo porta ad esplorare l’interessante e vasto corpus delle incisioni commerciali, scarsamente studiate nel campo dell’etnomusicologia classica, storicamente concentrata in favore delle field recording. Con questo approccio, Ward trova l’idea migliore nel far emergere la storia produttiva dei dischi in gommalacca: «I primi anni dell’industria discografica, vedono una prevalenza di società europee e americane che registravano in giro per il mondo per sfruttare i nuovi mercati disponibili, dove inviavano ingegneri del suono a incidere musica. Potremmo chiederci se si trattasse di una specie di capitalismo colonialista e la risposta sarebbe parzialmente assertiva. Perché le aziende discografiche furono abbastanza intelligenti da capire che solo organizzatori e rivenditori del posto avrebbero compreso i gusti musicali locali, e conseguentemente cercato e riunito artisti validi per le registrazioni. Che nella maggior parte dei casi dovevano essere vendute nel punto di origine. Conseguentemente, nel resto del mondo non vi era affatto idea che queste esistessero. Vale la pena notare che in generale, questi dischi erano considerati effimeri, non necessariamente da conservare o salvare. Preservare e diffondere oggi questi suoni globali è un “sommesso” atto politico. Sarebbe un peccato se queste storie musicali restassero celate. Ogni disco ne racconta una, a volte complicata».
E perdersi nelle innumerevoli narrazioni presenti è indubbiamente affascinante. Sono rappresentati tutti i continenti, con Africa e Asia a primeggiare: la mauritana Adja Mint Aali con il canto religioso El Khar del 1954 stampato dalla label N’dardisc fondata dal francese Louis Fourment, già a capo della rivista musicale La Radio Africaine, è l’esempio di come da una canzone Ward giunga alla descrizione di una scena musicale e dei suoi protagonisti. Stesso discorso dicasi per il genio kazako Garifulla Kurmangaliyev, cantante lirico e suonatore di dombra, un liuto a due corde, che in Asylzhan, registrata nel 1958, dimostra le qualità che nel 1954 lo resero «People’s Artist» in Unione Sovietica. Notevole anche la presenza di musica nostrana, con ben quattro brani che includono, oltre gli strumentisti Giovanni Vicari e Pasquale Taraffo e il coro Superba Molassana con un trallallèro, anche il cantautore sardo Gavino De Lucas, impiegato postale a Roma che venne trucidato per la sua attività di antifascista alle Fosse Ardeatine il 24 marzo 1944.

FUORI I DISCHI 
Ali Muhammadi, Vitha (Sudan)
Durban Lions, Maheshe (South Africa)
Itokazu Kame, Hatoma-bushi (Japan)
J. Joseph and Mary, Safarini (Kenya)
Miss Thông, Chinh Phụ Ngâm, Pt 1 (Vietnam)
Nicholas De Heer, Osibonibom (Ghana)
Philip Tanner, The Gower Reel (Galles)
Saramacca Band, Moengo Boto Blon (Suriname)
Sexteto Habanero, Son las dos… China (Cuba)
Wei Zhongyue, Shimian Maifu, Pt. 1 (China)