Yann Demange, autore che dopo molta fiction televisiva e un documentario esordisce con il film a soggetto ’71, è uno di quei registi che evidentemente ama mettere tutte le cose al loro posto prima di intraprendere un viaggio. Almeno sembra a giudicare dalla sua opera prima, ambientata come evidenzia il titolo nel 1971, nella Belfast martoriata da una guerra sanguinosa che rammenta ai nostalgici degli anni Settanta quanto uomini e donne fossero anche allora pezzi di carne da sacrificare per cause insensate.

 
In modo didascalico si inizia con il protagonista che si esercita duramente per diventare un soldato britannico. Il nostro ha la responsabilità di un ragazzino confinato in un istituto, anche perché nel frattempo il soldato viene spedito a Belfast per il precipitare della situazione. Giunto in Irlanda del Nord entra a far parte di un battaglione che deve occuparsi del conflitto tra i protestanti lealisti a est (friendly) e i nazionalisti cattolici a ovest (hostiles). Inoltre all’interno dell’IRA esiste una scissione che divide i vecchi elementi da quelli giovani, più radicali e violenti. A completare il quadro degli agenti in borghese incaricati di infiltrarsi tra le linee nemiche (linee che non sempre sembrano ben demarcate) e che agiscono fuori dal controllo dell’esercito.
Il soldato ha anche un nome, Gary Hook, uno che non sa nemmeno se è cattolico o protestante e che dopo l’addestramento pensava che sarebbe andato altrove, forse in Germania, ma non in quell’inferno di Belfast.

 
Visto che l’espressione tra il corrucciato e lo spaesato potrebbe non essere sufficiente a far comprendere la paura del protagonista, il giovane soldato viene fatto alzare in piena notte in preda all’insonnia e all’ansia e in cinque secondi la pratica è sistemata. Tra le cose da mettere al loro posto, l’ambientazione da guerra di quartiere, che omologa l’Irlanda alla Palestina o all’Iraq, e l’ostilità della popolazione, impersonata in prima battuta da dei ragazzini che lanciano contro gli sprovveduti commilitoni, invece di pietre, dei gavettoni di piscio. Prima di entrare nel cuore della storia mancano pochi dettagli: il conflitto tra chi percepisce quei soldati come degli invasori e i militari che per gioventù, paura e ingenuità diventano delle vittime sacrificali, al cospetto di superiori senza scrupoli e di doppiogiochisti. I liquidi corporei presto si trasformano in pietre e le pallottole iniziano a volare.

 
Nella sommossa, i soldati hanno la peggio e battono in ritirata, ma nella foga abbandonano in territorio ostile, il povero Gary. E qui, dopo che tutti gli elementi sono stati messi al loro posto (chiuso il gas, controllato che le finestre siano chiuse, che le piante ricevano la quantità necessaria d’acqua, che il vicino abbia le chiavi in caso d’emergenza) inizia il film con il soldato che cerca una via di scampo, e che per questo richiama lo spettatore a una forzosa empatia. Gary, che fino alla sera precedente non sapeva in che zona fosse la sua caserma, e che non ha né google map né WhatsApp, non può fare altro che affidarsi a chi gli promette aiuto, in balia di un destino che lo sballotta da est a ovest, da un orrore all’altro, senza che lui possa opporvisi in alcun modo. Anche perché Belfast è veramente piccola e tutti si incontrano con tutti.

 
Forse è stato tralasciato un particolare: il film è ben realizzato, un po’ come quelle partenze intelligenti che, però, conducono in una località piuttosto nota e affollata.