Mezzo chilometro di terra di nessuno, deserto, sabbia, pietre e 70mila persone ammassate ad un confine chiuso: Ruqban è un buco nero, un’oasi-inferno a 130 chilometri dal primo villaggio, dal primo pozzo d’acqua. Negli ultimi anni Ruqban si è fatto campo profughi, alla frontiera tra Siria e Giordania, controllato giorno e notte dai militari di re Abdallah.

Indietro non si torna, ma non si va neppure avanti. È la politica che molti paesi arabi hanno adottato dopo aver accolto milioni di rifugiati siriani: la Turchia da un anno e mezzo ha sigillato le frontiere e spara su chi tenta di passare, il Libano ha cancellato permessi di residenza e sospeso gli ingressi.

Amman taglia gli aiuti. Almeno a Ruqban: in questo pezzo di deserto arido e rovente, dove le tende sono teli di plastica, vivono 70mila siriani. A fornire il minimo indispensabile alla sopravvivenza sono le organizzazioni internazionali. Ma oggi sono bloccate: a Ruqban non si entra. L’ordine arriva dal governo giordano che ha dichiarato l’area “zona militare chiusa” dopo l’attentato rivendicato dall’Isis il 21 giugno: un miliziano si è fatto esplodere nella base militare ad un km da Ruqban. Sette soldati giordani sono morti, 13 feriti.

E, come accade in Europa, in Turchia, in Libano, si punta il dito sui flussi di disperati: tra i rifugiati – dice Amman, che dal 2011 ha accolto ufficialmente 642mila siriani, ufficiosamente 1,2 milioni – si potrebbero infiltrare terroristi dell’Isis. Con questa giustificazione, la monarchia hashemita nel 2013 ha chiuso tutti i valichi, lasciando aperti solo quelli di Ruqban e Hadalat, entrambi così lontani da zone abitate da rendere impossibile per i rifugiati spostarsi. Solo pagando trafficanti di uomini delle tribù locali (le stesse che nel campo vendono a prezzi esorbitanti beni di prima necessità e medicinali), qualche famiglia è riuscita ad andarsene.

Da lunedì la zona è blindata: le autorità governative hanno promesso tolleranza zero verso qualsiasi movimento nell’area. Blindata per chi? Se gli uomini dell’Esercito Libero Siriano, armi in pugno, continuano a usare Ruqban per entrare in Siria dopo l’addestramento con la Cia, a non passare sono i camion di cibo e le cisterne d’acqua che giungono dalla città più vicina, Ruwaished. «L’accesso continua ad essere negato – diceva venerdì il portavoce della Croce Rossa, Hala Shamlawi – Siamo preoccupati per le persone intrappolate lì».

Una preoccupazione che è già emergenza: da una settimana i 70mila di Ruqban non ricevono più nulla, l’acqua sta finendo (era molto poca già prima, 1,5 litri a testa al giorno in un angolo di mondo in cui in estate si superano i 40 gradi) e 30mila bambini rischiano di morire di fame. Le scorte di cibo sono agli sgoccioli: «Le razioni finiranno in pochi giorni», aggiunge Dina el Kassaby del World Food Programme.

Prima che la Giordania abbandonasse del tutto Ruqban la situazione era già al limite: Medici Senza Frontiere calcolava 1.300 bambini malnutriti in un sito senza cliniche né scuole. Tra le tende improvvisate girano scorpioni e ratti che si cibano della spazzatura. L’ultima volta gli aiuti sono arrivati un mese fa, sufficienti per andare avanti due settimane. Poi l’attacco ha interrotto ogni tipo di flusso. Le agenzie internazionali stanno negoziando da giorni con Amman, che per ora ha concesso solo l’invio di qualche cisterna d’acqua.

La situazione è così drammatica che c’è chi prende la decisione più estrema: tornare in Siria. «Stiamo ricevendo storie di persone che hanno deciso di rientrare in Siria a causa delle tremende condizioni in questo deserto desolato e remoto», dice ad al-Jazeera il ricercatore di Human Rights Watch, Gerry Simpson. Morire di guerra o morire di fame: una scelta che concretizza le parole usate da Medici Senza Frontiere per raccontare Ruqban, «l’enorme fallimento della comunità internazionale».

Ma, come riferito mercoledì dal ministro degli Esteri giordano Joudeh ai rappresentanti dei paesi occidentali, la sicurezza della Giordania ha la precedenza sulle emergenze umanitarie. Un linguaggio che l’Europa comprende bene viste le sue tenaci politiche di non-accoglienza. L’ipocrisia europea la svela il portavoce del governo giordano Momani: «Abbiamo accolto 200 rifugiati al giorno in passato. Non dobbiamo mostrare le nostre credenziali a nessuno quando si parla di ospitalità. Siamo pronti a trasferirli in qualsiasi paese li voglia accogliere. Anche usando i nostri stessi aerei».