La street art non ha luogo. I suoi luoghi sono tutti e nessuno, sono ovunque l’occhio riesca ad arrivare per decifrare lettere, messaggi, nomi mascherati da colori e linee. Non ha musei, l’arte che nasce sulla strada e per la strada. Così è sempre stato e, forse, così sempre sarà. Ma se qualcuno avesse voluto riconoscere una spazio che, più di ogni altro, si avvicinava al concetto di «museo» del writing, avrebbe fatto un nome e indicato un posto specifico: 5Pointz: The Institute of Higher Burnin, Queens, New York City. Il 5Pointz – così chiamato per indicare i 5 borough di New York uniti in una sola anima – è un complesso industriale che, nel corso degli anni, è stato dipinto da importantissimi artisti internazionali (circa mille ogni anno) su quasi ventimila metri quadri di superficie e cinque piani di altezza, tanto da essere definito la «Mecca dei graffiti».

Il lusso è monocromo

Nomi storici dell’aerosol art hanno decorato le pareti del magazzino dismesso: Dondi, Tracy 168, Cope2, la Tats Cru, arricchendo una collezione in continuo cambiamento e gestita da un altro veterano della street art internazionale, Meres One, che dal 2001 vagliava le opere dei nuovi writers e stabiliva il tempo di permanenza dei graffiti prima di lasciare spazio a nuovi capolavori.

Al secolo Jonathan Cohen, Meres One dipinge da quando aveva 13 anni ed è ormai uno dei massimi punti di riferimento per l’ultima generazione di writers newyorkesi. Proprio a lui si deve la trasformazione del vecchio stabilimento abbandonato del Queens – quartiere che lo ha visto crescere – nel nuovo 5Pointz. Come molti altri street-artists, Meres One aveva addirittura creato il suo studio all’interno della struttura e puntava ad aprire una scuola per giovani, nell’obiettivo di trasformare il sito – già frequentato da registi, fotografi e creativi – in un vero e proprio polo culturale.

Ma nella notte fra il 18 e il 19 novembre 2013, la street art è tornata a non avere luogo e quella che poteva trasformarsi in una nuova occasione per il Queens e per l’intera città di New York, è stata cancellata con vernice bianca. I proprietari della struttura hanno infatti avuto il via libera alla demolizione dell’intero complesso per avviare la costruzione di nuovi appartamenti di lusso, ignorando gli appelli di centinaia di persone e di artisti internazionali, primo fra tutti, Banksy.

Per accelerare la fine della «Mecca dei graffiti», la struttura è stata chiusa e tutte le pareti sono state imbiancate cancellando per sempre i circa trecentocinquanta murales presenti. Uno sfregio – distruggere l’arte ancora prima dell’edificio – che rende ancora più amara la «concessione» di una piccola parete per dipingere che i proprietari hanno promesso quando le nuove strutture saranno ultimate. Meres One e gli artisti del 5Pointz hanno lanciato molte iniziative per salvare il complesso e raccogliere fondi per ristrutturarlo, fra cui una petizione firmata da undicimila persone: non sono però riusciti a fermare la sentenza di morte ormai decretata. Un triste destino, quello del 5Pointz, ma il colpo che ha duramente ferito l’arte non ha ucciso gli artisti.

Proprio per reagire e per far conoscere al mondo la vicenda, nove writers e due fotografi hanno organizzato una mostra – aperta fino all’8 giugno – presso la Jeffrey Leder Gallery, una galleria d’arte distante un paio di blocks dal 5Pointz. Una rassegna dal nome emblematico, WhiteWash (che potrebbe essere tradotto con imbiancata), che rappresenta il modo in cui gli street artists hanno vissuto l’accaduto e che ha riscosso – fino a ora – un enorme successo.

«Non so descrivere quello che ho provato la mattina in cui mi sono svegliato e il 5Pointz era imbiancato, direi un misto di stupore e amarezza – racconta Jeffrey Leder, mentre ci guida nella sua galleria – Nei giorni successivi, ogni volta che passavo davanti a quel vuoto, sentivo crescere il peso di un’assenza. Da questa nostalgia è nato il progetto: nel gennaio scorso ho contattato Meres One e gli ho proposto la mia idea. Lui ha chiamato alcuni artisti che avevano già lavorato al 5Pointz ed ecco il risultato: opere che rispondono al violento atto della proprietà che, in una notte, ha cancellato per sempre centinaia di murales. Raccontiamo una storia di rabbia e dolore. Nelle opere emergono i sentimenti e le riflessioni degli artisti, si parla di assassinio dell’arte per la pressione della gentrification. Possiamo interpretare la mostra nella sua complessità come l’affermazione di un’arte che non potrà essere cancellata».

Nel dipinto di Christian Cortes, una Madonna svetta sul tetto del 5Pointz, avvolta dalla stella che ne componeva il logo, e a suoi piedi due angeli si battono contro il «demonio» che ha ucciso l’arte dipinto in forma di banconota. Nell’opera a quattro mani di Shiro e Meres One, l’anima del luogo si materializza nel fumo di una candela; in un altro lavoro, la Statua della Libertà è agonizzante sullo sfondo dei celebri graffiti del palazzo. Sulla tela di See TF la via che porta all’ingresso dello stabile è circondata dal tipico nastro giallo delle scene del crimine.

«Questa scultura – prosegue Leder indicando una statua ricoperta da firme – era completamente bianca. Il giorno dopo l’accaduto l’abbiamo esposta fuori dal 5Pointz e, in poche ore, tutto il quartiere ha voluto firmarla, a testimonianza del legame che le persone, e non solo gli artisti, avevano con il luogo».

Marie Cécile Flageul, curatrice della mostra e punto di riferimento per chi, fino all’ultimo, ha lottato per salvaguardare la struttura, ha definito questa esposizione un viaggio che ha portato la comunità artistica a ritrovarsi: «Fino all’8 giugno la galleria reciterà un requiem, ma questa mostra può essere anche un’occasione di rinascita per ricordare ciò che era davvero il 5Pointz: una comunità di artisti». «Il giorno dell’inaugurazione – prosegue Jeffrey Leder – sono venute a visitare l’esposizione più di quattrocento persone. L’atmosfera era la stessa di un ricevimento dopo un funerale. Si percepiva una malinconia che lentamente ha fatto spazio a ricordi e aneddoti di chi aveva uno studio al 5Pointz o aveva realizzato un’opera. Oppure di chi, semplicemente tornando dopo il lavoro e vedendo in lontananza i graffiti, si sentiva a casa. E questa condivisione ha lasciato in me, e in coloro che hanno partecipato, un profondo senso di gratitudine per aver preso parte alla storia di questo luogo».

Gite malinconiche

L’impatto con il 5Pointz è ancora forte: quando la metropolitana della linea 7 emerge dal tunnel l’edificio cattura il primo sguardo su Long Island dei pendolari che rientrano da Manhattan e dei turisti che raggiungono il Queens per visitare il P.S.1, il centro d’arte contemporanea affiliato al MoMa.

Scendendo alla fermata Court Square, basta attraversare la strada per ritrovarsi davanti ai primi murales imbiancati. La vernice candida lascia l’impressione di un lavoro malriuscito, quasi fosse una frettolosa cancellazione di un’arte che non si arrende e i suoi colori, che emergono dalle pennellate, continuano a ribellarsi a un destino inaccetabile.

Ancora oggi numerosi curiosi o nostalgici cercano di guardare dalle aperture nella rete ciò che resta della «Mecca dei graffiti». «Sono stato qui qualche anno fa – racconta un giovane australiano – e volevo vedere con i miei occhi lo scempio, è assurdo ciò che è accaduto». C’è chi sbircia dalle finestre per poter almeno immaginare come potesse essere il 5Pointz «vivo». Chi, invece, scatta una foto e stacca un pezzo di intonaco come souvenir. C’è un muratore che lavora proprio davanti all’edificio e chiede stupito perché la gente continui a fotografare quel magazzino abbandonato. Qualcuno torna ogni tanto in Jackson Avenue per essere certo che, anche se imbiancato, il 5Pointz sia ancora lì a testimoniare più di dieci anni di storia della street art.