Alla fine di agosto di 500 anni fa moriva un compositore immenso, tra i più grandi che siano nati in Europa e in tutto l’Occidente, paragonabile solo a Johann Sebastian Bach o a Beethoven: Josquin Desprez (lo si trova scritto anche Des Prez o Desprès).

Nacque intorno al 1450, forse nella città piccarda di Saint-Quentin, in Francia, nei cui confini viaggiò molto. Ma venne spesso anche in Italia: nel 1484 è a Milano al servizio degli Sforza, dove si incontra forse con Leonardo, poi dal 1489 risiede a Roma. Nel 1503 si trasferisce a Ferrara, ma nel 1504 è nominato prevosto a Condé, dove resta fino alla morte, il 27 agosto 1521. L’Italia di Josquin è quella di Ariosto, Machiavelli, Michelangelo, Raffaello, dell’editore Petrucci, che gli pubblica tre libri di musiche. Incredibile fucina di cultura, l’Europa di allora sentiva le differenze come altrettanti stimoli culturali: nel 1437 la cupola del Duomo di Firenze, progettata da Brunelleschi, viene inaugurata con un mottetto, «Nuper rosarum flores», di Guillaume Dufay.

I compositori franco-fiamminghi hanno la funzione che nella pittura e nell’architettura svolgono i pittori e gli architetti contemporanei: è il mondo di Ockeghem, Busnois, Isaac. Adrian Willaert è chiamato a dirigere a Venezia quella che sarà detta «scuola veneziana». La chanson francese è il modello universale del canto profano, dal cui influsso, anche, si svilupperà in Italia il madrigale. Proprio la chanson riceve dalle mani di Josquin una grazia che farà scuola, penetrando nella polifonia italiana e trasformando la frottola in qualcosa di più elaborato. Ciò che più distingue la musica di Josquin è la capacità di rendere fluido, scorrevole, dolcissimo, il più intricato lavoro contrappuntistico: la difficoltà della scrittura è nascosta dalla bellezza del risultato, in armonia con l’ideale di tutta l’arte del Rinascimento. Un mottetto, una messa, una chanson di Josquin lo dimostrano non meno che un quadro di Raffaello o un’architettura di Bramante. È probabile sia lui il soggetto del Ritratto di musico dipinto da Leonardo. La sua musica è una mirabile sintesi di tutta la musica del secolo, come lo sarà quella di Bach nel ’700: ciò che li avvicina è, fra l’altro, la capacità di costruire edifici sonori di una straordinaria fluidità e scorrevolezza, di una infinita dolcezza melodica e gradevolezza armonica, facendo ricorso ai più intricati e difficili artifici contrappuntistici.

La Missa Hercules Dux Ferrarie (il dittongo ae si contraeva nella scrittura in e, come nella pronuncia), dedicata al Duca di Ferrara, trae il tenor su cui è costruita dalle vocali del titolo: e u e u e a i e, re ut re ut re fa mi re, che coprono il tetracordo ut (do) – fa. All’ascolto l’artificio non si percepisce. Quando Benedetto Croce cercò un’idea in cui racchiudere la poesia di Ariosto, ricorse – in quello che forse è il suo saggio letterario più bello –al concetto di Armonia.

Anche in Josquin come in Ariosto, l’armonia del mondo, l’equilibrio delle passioni, la distanza intellettuale dell’Ars restituiscono in musica il dominio della mente sulla materia, la sapienza dell’Arte. Nel 2017 si è conclusa in Olanda la New Josquin Edition (NJE), l’edizione del corpus di tutte le sue opere. Lavoro monumentale, paragonabile solo all’edizione delle opere di Bach. Josquin ci ha lasciato 32 messe, e poi mottetti, chanson, frottole, una produzione che divenne presto il modello di ogni musica fino al Cinquecento inoltrato. Lo si paragonò a Michelangelo proprio per l’immenso influsso che ebbe sulla musica del tempo, e noi oggi vediamo in Josquin l’Ariosto della musica