Della rivoluzione a colori promessa da Edi Rama non è rimasto che un solo colore sulla tavolozza: il grigio. Il grigio della corruzione, del crimine organizzato, degli oligarchi. E ancora il grigio di una gioventù che lascia in massa il Paese a cercar fortuna altrove e quello di un’Albania razziata dal capitalismo selvaggio sorto dalle ceneri del regime comunista.

A sette anni dal primo mandato il premier artista quel grigio lo sta ora tingendo di tonalità ancora più scure. Sono quelle della svolta autocratica che Rama ha impresso al Paese negli ultimi mesi con una serie di leggi liberticide che mettono il bavaglio ai media e rafforzano i poteri della polizia. Formalmente, per contrastare fake news da una parte e criminalità organizzata dall’altra. Di fatto, un modo per arginare il dissenso e intimidire gli avversari.

L’ultima delle battaglie tra maggioranza e opposizione si è combattuta sul terreno della nomina dei giudici della Corte costituzionale, azzerata da quando è stata varata la riforma della giustizia, condizione per l’avanzamento di Tirana nel processo di integrazione europea.

In questo clima è andata in scena l’ennesima anomalia della politica albanese: quella di un Presidente della Repubblica, Ilir Meta, che convoca la piazza insieme all’opposizione per manifestare contro quello che definisce «il colpo di Stato» del governo socialista.

Tra i due fuochi, un Paese che vede pochi progressi sul piano sociale ed economico. Già nel 2019 l’economia ha mostrato i primi segni di cedimento, con una crescita del Pil al 2.8%, quasi un punto in meno rispetto al 2018, trainata perlopiù da investimenti come il Tap che termineranno quest’anno.

A questa fragilità interna corrisponde, e in parte è causa, un’instabilità politica internazionale che si riflette sugli equilibri della regione.
Con il no francese all’avvio dei negoziati di adesione all’Ue di Albania e Macedonia del Nord l’ottobre scorso, Bruxelles ha perso qualsiasi credibilità nella regione, accelerando il riposizionamento di altri attori, in primis Stati Uniti, Russia e Turchia.

Il vertice sui Balcani in programma a maggio a Zagabria in cui si dovrebbe dare l’ok all’avvio dei negoziati potrebbe essere un appuntamento tardivo. Lo dimostra l’attivismo degli Stati Uniti, intenzionati a portare a casa un accordo storico tra Serbia e Kosovo che non esclude lo scambio di territori tra i due Paesi.

L’accordo sciagurato mette d’accordo il presidente serbo Aleksandar Vucic, quello kosovaro Hashim Thaqi e il premier albanese, ma incontra l’opposizione di Angela Merkel che ha trovato una sponda nel nuovo premier kosovaro, Albin Kurti.

Il presidente ribelle, simbolo della lotta alla corruzione e unico ricambio di leadership avvenuto nelle urne, sembra però isolato non solo dall’opposizione e dal suo stesso partner di governo, l’Ldk, ma anche da Washington che ha chiesto a più riprese l’abolizione dei dazi imposti un anno fa sulle merci serbe, primo passo per il rilancio del dialogo tra i due Paesi.

E proprio questa inedita divergenza tra Washington e Pristina è alla base di un altro scontro inedito, quello tra Kosovo e Albania. Sulla questione dei dazi Rama non ci aveva pensato due volte a schierarsi dalla parte di Vucic. Con l’elezione di Kurti Rama dovrà certo essere più cauto visto anche l’ampio consenso popolare che il premier kosovaro riscuote in Albania. Eppure le divergenze sono emerse fin dal loro primo incontro.
Mentre il premier kosovaro vagheggiava di una macro Schengen albanese, una zona di libera circolazione tra Kosovo e Albania, Rama rilanciava il micro Schengen, iniziativa analoga – bollata da Kurti come «Quarta Jugoslavia» – che vede coinvolti Serbia, Macedonia del Nord e Albania e che ha sollevato non poche polemiche soprattutto in Kosovo.

Pur non investendo risorse economiche considerevoli, la Russia è abile a sfruttare le divisioni in campo per destabilizzare l’area. Lo si vede in Montenegro, dove proseguono le manifestazioni della Chiesa ortodossa contro la controversa legge sulla libertà religiosa approvata da Podgorica.

E lo si vede in Macedonia del Nord dove ad aprile si terranno delle elezioni che con molta probabilità segneranno il ritorno dei nazionalisti del Vmro-Dpmne; ma soprattutto lo si vede in Bosnia, dove Mosca sta lavorando a rinsaldare i legami tra nazionalisti serbi e croato-bosniaci.

L’azzardo russo non piace affatto a Washington, deciso a spingere per l’ingresso di Sarajevo nella Nato, né ad Ankara, che da anni conduce una politica nell’area di stampo neo ottomano.
E se Tirana è cauta rispetto a Mosca, certo non resta indifferente ai richiami della Turchia di Recep Tayyp Erdogan. Al contrario: quella di Tirana con Ankara sembra una vera e propria luna di miele, fatta di scambi commerciali, investimenti, banche, moschee.

Una luna di miele appena incrinata dall’opposizione di Rama alla richiesta di Erdogan di estirpare la rete gulenista in Albania, la più radicata nei Balcani. Opposizione divenuta più flebile dopo il generoso aiuto offerto dal Sultano nella ricostruzione dell’Albania dopo il sisma del novembre scorso.
Eppure rispetto a questi sommovimenti l’Europa resta a guardare. E il grigio della tavolozza appare sempre più nero.