È da lunedì sera, da quando le urne digitali della piattaforma Rousseau si sono chiuse, che lo stato maggiore grillino incassa la vittoria e allo stesso tempo cerca di voltare pagina in fretta: «Tutti si adeguino alla decisione della base, il governo va avanti», dicono con sfumature diverse il «capo politico» Luigi Di Maio, il ministro dei rapporti con il parlamento con tanto di delega alla «democrazia diretta» Riccardo Fraccaro e Mario Giarrusso, capo della delegazione pentastellata nella giunta che ieri al senato ha votato contro il processo a Matteo Salvini insieme al centrodestra.

I vincitori incassano il successo senza enfatizzare troppo, perché non sono abituati ad avere a che fare con un M5S così dilaniato. Per questo quando, alla metà pomeriggio del giorno successivo alla votazione, sulla bacheca di Luigi Gallo, presidente della commissione cultura della camera considerato molto vicino a Roberto Fico, compare il messaggio che recita: «Adesso quel 41% di contrari all’assoluzione di Salvini deve pesare all’interno del Movimento 5 Stelle», le acque tornano agitate e lo spettro di una vittoria di Pirro si materializza nei conciliaboli dei vertici grillini.

Sparano sul quartier generale quei consiglieri comunali, dall’ex candidato sindaco di Palermo Ugo Forello all’intero gruppo del consiglio comunale di Torino, che avevano firmato un appello contro l’immunità a Salvini. In serata ci sono alcuni eletti nei municipi romani a protestare davanti al Teatro Brancaccio, dove Beppe Grillo mette in scena il suo ultimo spettacolo.

Le voci descrivono il «garante» come distaccato, se non proprio infastidito dalle tendenze accentratrici di Di Maio. La deputata Gilda Sportiello descrive la situazione in questo modo, fuori dalla narrazione ufficiale: il M5S si è riscoperto «profondamente spaccato», per questo «avremmo bisogno di trovare spazi di discussione e soprattutto di condivisione, luoghi in cui la banalizzazione e la semplificazione lascino spazio ad un pensiero più ampio».

Il problema è che questi spazi dentro al M5S che conosciamo non ci sono. Il Movimento 5 Stelle ha sempre funzionato con l’adesione della base alle scelte dei vertici e il dibattito sulle questioni fondamentali ridotto al minimo. La tempistica ha voluto che le proposte di riforma organizzativa avanzate da Di Maio siano arrivate proprio quando per la prima volta, in maniera confusa e non strutturata, si sono palesati dubbi sulla linea politica di quest’ultimo anno.

Il metodo e il merito si sono intrecciati anche lunedì notte, nelle lunghe tre ore di assemblea dei gruppi parlamentari. Lì un altro di quelli che avevano espresso posizione per il processo a Salvini, il presidente della commissione antimafia Nicola Morra, ha criticato l’idea di aprire ad alleanze in chiave locale con liste civiche, mettendo in guardia su possibili infiltrazioni: «Attenzione, in tanti vogliono salire sul carro dei vincitori». Al contrario, il sottosegretario agli esteri Manlio Di Stefano ha prima rivendicato il suo voto contro l’autorizzazione a procedere e poi sostenuto la necessità che in futuro prima di essere eletti in parlamento si debba fare esperienza negli enti locali. Una maniera elegante di archiviare il limite dei due mandati.

Allora le parole del deputato Gallo suonano come dichiarazioni programmatiche ad uso e consumo di un’opposizione interna che al momento non esiste ma che per una strana forma di eterogenesi dei fini si è di colpo materializzata con la consultazione sul processo a Salvini. E che potrebbe avere margini di crescita se le europee di maggio non dovessero dare i risultati sperati.

«La Lega fa la Lega, il M5S deve fare il M5S – spiega Gallo – Il M5S ha un suo programma sull’immigrazione e deve rivendicarlo, ha una sua idea di solidarietà, ha dei suoi valori sull’incontro tra diversità e deve rivendicarla». Poi risponde anche a chi, come Paola Taverna, ha usato lo scudo legale al ministro dell’interno per attaccare le voci critiche: «C’è qualcuno che dice che il 41% deve andarsene, qualcun altro vuole etichettare il 41% come dissidenza. Io so invece che il 41% è pronto a mobilitarsi e vuole chiedere conto della direzione di questo governo».