Ci si affida al Lingotto per partire o ripartire. Una sorta di totem da invocare nei momenti di svolta. O, anche, di crisi, come quello attuale per il Pd, in calo nei sondaggi, e per il suo leader, Matteo Renzi, in sincero affanno. A Torino, il segretario dem ha inaugurato la campagna elettorale: tutta all’attacco dei «Cinquestelle incompetenti» e votata, almeno nelle premesse, al gioco di squadra interno al partito: «Non è importante qual è il nome che andrà a Palazzo Chigi ma che sia del Pd». Una piccola ammissione – difficile per un carattere alfa come quello dell’ex premier – che fa intendere come forse il nome di Gentiloni sia più spendibile del suo. Che la sua popolarità sia crollata se ne sono accorti anche Oltreoceano: il Wall Street Journal ha, ieri, titolato «L’autodefinitosi ‘rottamatore’ affonda nei sondaggi» e con le percentuali, ha sottolineato il quotidiano, anche le speranze di un suo ritorno al governo.

A Torino, Renzi ha partecipato, al Centro Congressi, all’appuntamento con mille amministratori locali del Pd. «Il vostro ruolo in questa campagna elettorale è cruciale». Ha citato Obama sul fatto che i cittadini si fidano più degli amici di Facebook che non dei soggetti istituzionali. Chiamando consiglieri, presidenti e assessori a invertire questa tendenza, a una maggiore responsabilità e a un rapporto più diretto con la cittadinanza: «Non si può lasciare tutto alla televisione». Perché «il nostro avversario alle elezioni 2018 è l’incompetenza», incarnata, secondo Renzi, dal M5s. «La sfida non è tra noi e Berlusconi, ma tra noi e i Cinque Stelle», ha specificato.
«Non puoi gridare onestà – ha tuonato il segretario dem – e alla prova dei fatti dimostrarti incapace di risolvere i problemi. Benedetto Croce diceva che governo onesto è quello capace». E via all’attacco di Chiara Appendino, sindaca di Torino: «Noi siamo gli amministratori che non falsificano bilanci e nelle nostre città i revisori dei conti non si dimettono», ha sottolineato riferendosi ai revisori dei conti che si sono dimessi nella città della Mole. E, poi, contro Virginia Raggi, prima cittadina di Roma: «A me di Spelacchio non interessa granché, il punto non è se Spelacchio sia bello o brutto “ogni Spelacchio è bello a mamma sua”. Il punto è che se costa il doppio, è un problema di incompetenza».

A stretto giro di posta la replica di Appendino, ieri in compagnia di Luigi Di Maio, che in questi giorni è in tour in Piemonte. «Dopo gli ultimi “grandi” successi collezionati in politica, Renzi ha evidentemente deciso di sostituirsi ai magistrati, emettendo sentenze prima ancora della chiusura delle indagini, proprio mentre illustri esponenti del suo partito sono sotto inchiesta per il Salone del Libro e non solo». E, poi, quella di Raggi: «Il segretario del Pd, ancora una volta, mistifica la realtà. Se vuole parlare di raddoppio dei costi, si interroghi insieme a tutti gli italiani in merito all’esplosione di quelli per la Metro C, causati dalle precedenti gestioni».

Gli anni ruggenti del rottamatore sono lontani, i sondaggi danno in costante calo il suo partito, al 23,1% (-0,3% rispetto a dicembre): era dato al 30,4% nel maggio del 2017. Sul tema, al Lingotto, dove il giorno prima era sceso in campo il premier Gentiloni, Renzi se l’è cavata con una battuta: «I leader, i sondaggi li cambiano non li inseguono». E ha aggiunto: «Guardate le ultime elezioni: nel 2013 Bersani, nel 2008 Veltroni, nel 2006 Prodi, nel 2001 Rutelli. Anche nei 50 giorni prima delle elezioni del 2013 i sondaggi dicevano cose totalmente diverse, ci davano 11 punti in più di quelli presi, ma se ci si crede, le cose si cambiano. Per cambiare, però, bisogna alzare il livello della discussione».

E, a proposito di lavoro, mette di nuovo il M5s nel mirino: «A chi pensa che robot e intelligenza facciano paura e sostiene che il lavoro sia finito e, quindi, si debba dare il reddito di cittadinanza a tutti, dico che non sia giusto che una Repubblica, fondata sul lavoro, pensi di vivere di sussidi e di assistenzialismo». Alle polemiche con Leu sulle regionali in Lombardia dedica una stilettata, rispolverando la retorica del voto utile. «Un voto dato alla sinistra radicale, o presunta tale, porta a far prevalere uno del centrodestra in Parlamento o in una Regione».

Complessivamente Renzi, copertura mediatica a parte, esce dal Lingotto come un leader in difficoltà. Se invettiva e proposta si fermano, da un lato a Spelacchio e, dall’altro, a presunte maggiori competenze, significa che il partito è in affanno. Prima di idee che di consenso elettorale. Ora, la formula dem per le elezioni sarà un attacco a due punte: l’ex rottamatore e il più posato premier. Chissà se il mix durerà o non arriverà via twitter un sibillino «Stai sereno».