47 Stati e il Distretto di Columbia si sono ribellati in modo bipartisan alla richiesta di consegna dei dati riguardanti gli elettori, da parte della commissione di Donald Trump sui brogli elettorali.

Dal momento dell’elezione, vinta grazie al sistema elettorale americano che penalizza il voto popolare, andato invece ad Hillary Clinton per ben 3 milioni di voti, Donald Trump ha indicato la causa di questa sconfitta nominale in alcuni brogli che sarebbero stati orditi a suo danno e a causa di ciò ha istituito una commissione speciale per far in modo che non accada più.

La commissione si è quindi mossa in questo senso e il 28 giugno il segretario di Stato del Kansas, Kris Kobach, vice presidente della commissione presidenziale di Donald Trump sull’«integrità elettorale», ha inviato una lettera ai 50 paesi della federazione chiedendo informazioni su tutti i votanti, compresi i numeri di previdenza sociale, l’affiliazione di partito, i reati criminali e la storia militare. Una schedatura.

Inizialmente solo pochi Stati – California, Kentucky, New York e Virginia – si sono rifiutati, definendo le attività della commissione come «uno spreco di denaro dei contribuenti e una distrazione dalle vere minacce all’integrità delle nostre elezioni», ma durante il weekend del 4 luglio l’opposizione alla richiesta di Kobach è aumentata sia da parte di Stati repubblicani che democratici. Sono ora 48 gli Stati che hanno rifiutato di trasmettere i dati privati ​​degli elettori alla commissione di Trump.

«Studio l’amministrazione elettorale americana dal 2000 – ha affermato Charles Stewart III, ricercatore di scienze politiche al MIT di Boston – e raramente ho visto una ribellione al governo centrale di questa portata».

21 Stati si sono rifiutati di dare alcun dato sui loro elettori a Kobach e 27 hanno fornito solo informazioni già pubbliche; lo stesso Kobach non ha potuto consegnare a se stesso i numeri di previdenza sociale degli elettori in quanto in Kansas non sono dati pubblici.

Notevole è l’opposizione dei segretari di Stato repubblicani provenienti da Stati come Mississippi, Louisiana e Arizona.

Delbert Hosemann, del Mississippi ha testualmente detto a Trump e Kobach di «buttarsi nel Golfo del Messico»; Tom Schedler, della Louisiana, ha dichiarato che «la Commissione del presidente ha rapidamente politicizzato il suo lavoro chiedendo agli Stati un incredibile numero di dati che ho, ma che ogni volta rifiuto di rilasciare»; Michele Reagan dell’Arizona ha definito il tutto come «un esperimento politico organizzato in fretta e furia».

Anche membri della commissione elettorale di Trump si sono opposti e un membro della commissione, il vice segretario di Stato del Maryland, Luis Borunda, si è già dimesso.

Insomma questo è stato un esperimento ed è fallito mostrando, ancora una volta, quanto sia profondo il divario tra Trump e gli Stati Uniti d’America.

Al momento molti Stati hanno deciso di restare nel trattato di Parigi, più di 300 città sono città santuario e non consegnano i propri cittadini illegali a Washington per farli deportare, sono ancora di più le città che si sono rifiutate di impiegare il proprio corpo di polizia per le retate che Trump invocava contro i migranti. Viene quindi da chiedersi chi, in effetti, rappresenti Trump.

In questo caso alcuni degli Stati repubblicani che si sono rifiutati di aderire alle richieste di Kobach l’hanno fatto non solo per ragioni legali e ideologiche, ma per non andare contro i propri cittadini, perché questa richiesta di schedatura non riguarda più l’altro da sé, gli illegali, i neri, ma proprio tutti. Inclusi quell’elettorato bianco e ultra reazionario che compone la base di Trump.