Non c’è bisogno di andare a scomodare il venusto Mizoguchi Kenji per affermare o dimostrare che 47 Ronin è un disastro. Il problema di 47 Ronin è tutto hollywoodiano. Frutto del sincretismo post-Matrix, luogo-narrazione dove graphic novel, arti marziali, Hong Kong movies, spaghetti western, hard-boiled, noir e techno s’intrecciano in un vertiginoso abbraccio di secondo grado, 47 Ronin potrebbe vantare benissimo come unico motivo d’interesse la prova inoppugnabile del definitivo inaridirsi di un idioletto che è stato il genere trasversale del cinema hollywoodiano a partire dai 90 in poi.

E non è un caso che proprio Keanu Reeves sia il testimone designato per accompagnarlo alla tomba. Lui, simbolo del cinema action transgender. La storia dei samurai destinati a vendicare la morte del loro padrone è un luogo comune narrativo pari solo a quello dello straniero senza nome che dal nulla giunge nel paesino governato da una banda di manigoldi (per dirla con Tex). Per cui ci si può davvero evitare di riferirsi ai nomi di grandi giapponesi come Misumi Kenji, Kobayashi Masaki, che hanno reso il samurai-movie uno dei luoghi di pellegrinaggio più frequentati dalla cinefilia.

Carl Rinsch, con la collaborazione di Keanu Reeves, pensavano evidente al Giappone come una sorta di luogo astratto, posto fra virgolette di valore assoluto, nel quale calare senza colpo ferire la strega che rimanda alla donna drago Kiyohime, i cui capelli fluenti evocano a loro volta la Sadako di The Ring ma anche le Nureonna che erano soliti lavarli in riva a un fiume e i lacerti della memoria dei fantasmi cinesi di Ching Siu-tung e Tsui Hark. Tutti motivi per cui la storia del mezzosangue Kai, sfuggito a un severo addestramento di monaci fantasmi, ma rifiutato dalle severissime leggi di casta dei samurai, non prende mai piede in forme convincenti nonostante un cast di volti giapponesi tutt’altro che trascurabili come Tanaka Min, Hiroyuki Sanada, Tadanobu Asano (ossia Ichii the Killer per Takashi Miike.

Eppure, senza andare troppo lontano, Rinsch e Reeves avevano la possibilità di rifarsi a un modello domestico più raggiungibile e meno appensantito da ipoteche cinefile come L’ultimo samurai di Edward Zwick, probabilmente il più miliusiano fra i film che John Milius non ha avuto l’opportunità di dirigere. Al di là delle inevitabili mancanze di gusto e di cultura del film di Rinsch e Reeves, decisamente imperdonabili, ci sono ovviamente i difetti strutturali che si traducano in un montaggio plumbeo, in articolazioni narrative telefonate, interpretazioni legnose e climax che tali non risultano mai. E persino il momento del seppuku collettivo, si risolve con un taglio del tutto ingiustificato dato il contesto e la storia.