Poco prima delle 17:30 di ieri, Iwao Hakamada è uscito dal carcere di Kosuge di Tokyo. A 78 anni, di cui 48 passati in carcere, e poco più di 45 nel braccio della morte, ha preso una strada che fino al giorno prima non immaginava avrebbe mai percorso.

Suo malgrado era entrato nel Guinnes dei primati per aver passato più anni di tutti nel braccio della morte. Un record che si fa fatica a invidiargli.

Oggi, Hakamada è un uomo libero, almeno fino alla fine del processo per un crimine commesso quasi mezzo secolo fa.

La sentenza firmata dal giudice capo del tribunale distrettuale di Shizuoka, Hiroaki Murayama, parla chiaro: prove fondamentali contro l’imputato sono state fabbricate. E chi aveva necessità o capacità di farlo, poteva essere solo tra chi ha condotto le indagini. Continuare a tenere Hakamada dietro le sbarre, è quindi insostenibile. Anzi, illegale.

Ex pugile professionista, Hakamada è salito agli onori delle cronache nell’agosto del 1966, quando viene arrestato con l’accusa di omicidio e incendio doloso. Poco più di due mesi prima, era scoppiato un incendio nella casa di un dirigente di una fabbrica di miso (una pasta di soia fermentata e riso) nei pressi di Shizuoka, città a 150 km a sudovest di Tokyo. Dalle macerie erano emersi i corpi di 4 persone: il direttore dello stabilimento, la moglie e i due figli.

Inizialmente dichiaratosi innocente, alcuni giorni dopo l’arresto Hakamada confessa: è lui il colpevole. In sede di giudizio, però, ritratta. Ma ciò non basta a evitare all’uomo, allora poco più che trentenne, la condanna a morte che giunge più di due anni dopo l’arresto. Un anno e 2 mesi dopo l’incendio e la scoperta dei resti carbonizzati delle quattro vittime, viene infatti ritrovata la camicia a mezze maniche che l’imputato avrebbe usato al momento del crimine. Sulla spalla destra una macchia di sangue gruppo B – lo stesso dell’ex pugile – che lo incastra.

A settembre del 1968 Hakamada entra così nel braccio della morte e nell’80 la condanna viene confermata. Ma già prima di allora erano emersi dubbi sulla sentenza. Uno su tutti: le modalità della confessione. Hakamada aveva subito violenze durante gli interrogatori. E poi la camicia: il gruppo sanguigno coincideva, ma non era stato fatto l’esame del Dna.

Dopo la conferma della condanna, gli avvocati dell’ex pugile fanno ricorso chiedendo un nuovo processo, ma la richiesta viene rifiutata 27 anni dopo quando Hakamada è in carcere già da quasi quarant’anni.

Nel 2008 un nuovo ricorso e l’inizio di nuove indagini sulle prove. Il Dna della macchia di sangue trovata sulla camicia e quello dell’imputato non coincidono. Anche la polizia è costretta ad ammettere: «Il Dna esaminato potrebbe essersi deteriorato o essere stato inquinato».

Da quel momento l’accusa inizia a sbriciolarsi, fino alla sentenza di ieri che ha mandato all’aria tutto l’impianto accusatorio. «Con l’inizio di un nuovo processo – ha spiegato il giudice Murayama – l’esecuzione della condanna a morte è naturalmente sospesa». Fuori dal carcere ad attendere l’uscita di Hakamada c’era la sorella Hideko, che non si è mai arresa nel chiedere giustizia per il fratello. Si è detta felice e sollevata. Hakamada non è più un «morto che cammina», ma Hakamada-san, il «signor Hakamada».