«La morte del boss Totò Riina non diventi l’occasione per smantellare il 41 bis». Butta subito le mani avanti, Aldo Di Giacomo, il segretario generale del Sindacato polizia penitenziaria (Spp) che da 26 giorni è in sciopero della fame per protestare contro le linee guida emesse dal Dap poco più di un mese fa con la finalità di uniformare l’applicazione del regime di carcere duro in tutti i 13 istituti penitenziari dove è previsto. Provvedimento che il ministro Orlando ha caldeggiato per «evitare ogni forma di arbitrio e di misure impropriamente afflittive» e che invece il sindacalista paragona all’«atteggiamento buonista nei confronti di Riina perché uscisse definitivamente di cella».

Si agita inutilmente, il segretario del Spp, preoccupato che «il clima di fine legislatura potrebbe favorire il disegno di ammorbidimento del 41 bis», mentre al contrario, secondo lui, «bisogna lasciare le cose come stanno e rinviare ogni provvedimento che riguarda il nostro sistema penitenziario e giudiziario al nuovo Parlamento».

Preoccupazione inutile perché la norma, introdotta nell’Ordinamento penitenziario (art.90) per la prima volta nel 1992, dopo la strage di Capaci, con decretazione d’urgenza ma che subì una serie di proroghe fino a trasformarsi nel 2002 da provvisoria in stabile ed infine venne indurita ulteriormente da Berlusconi, ha ancora la fama di essere necessaria e indispensabile per combattere la criminalità mafiosa.

Malgrado i dubbi sollevati da più parti e le critiche delle organizzazioni internazionali, ultima in ordine di tempo quella del Comitato Onu contro la tortura (Cat) che ha bacchettato l’Italia per l’eccessivo isolamento a cui vengono sottoposti i detenuti in 41 bis e il fatto che in alcuni casi, come quello di Totò Riina, il recluso venga sottoposto a questo tipo di regime durissimo, che i Radicali hanno più volte paragonato a «tortura», anche per oltre vent’anni (24, nel caso del “boss dei boss” mafiosi).

D’altronde Riina è personaggio che non ispira certo pietà, ma non è questo il punto.

Come sottolinea l’associazione «Nessuno tocchi Caino» ricordando i rilievi fatti dal Cat, «uno Stato che resta sordo, cieco e muto rispetto agli impegni nei confronti della Comunità internazionale rischia di perdere la forza necessaria a contrastare il fenomeno della criminalità organizzata, perché le emergenze si affrontano con un’estensione dello Stato di Diritto e non con la sua abdicazione. Come diceva Leonardo Sciascia, la mafia si combatte non con la terribilità della pena ma con il Diritto».