Molti numeri, ben poche certezze, ma un dato che risalta su tutti: circa 40mila richieste di imprese di poter aprire in deroga all’elenco dei settori essenziali, specie nel più colpito Nord-Est produttivo. L’analisi delle conseguenze sul lavoro dell’emergenza Coronavirus in queste settimane divide gli esperti mentre ogni istituzione sforna dati che appaiono in contraddizione fra loro.

Ieri l’Istat come ogni primo del mese ha reso noti i consueti numeri mensili sulla disoccupazione. La discrasia di due mesi ha fatto pubblici i dati di febbraio – mese in cui l’emergenza era ancora molto limitata e soprattutto circoscritta a pochissime zone del paese. A quel tempo, dopo 2 mesi di crescita, il tasso di disoccupazione torna a diminuire, attestandosi al 9,7% (-0,1 %) mentre continua ad aumentare il numero di inattivi.

DATI GIÀ POCO INCORAGGIANTI per la Fondazione Di Vittorio – «diventa negativo l’andamento annuale degli occupati con 6 mila unità rispetto a febbraio 2019 – che però guarda oltre a tinte più che fosche: «Sarà altissimo già da marzo e nei mesi successivi, il ricorso agli ammortizzatori sociali, con conseguente calo di ore lavorate che, è bene ricordare, sono attualmente ancora più basse di quelle del 2008», sottolinea il presidente Fulvio Fammoni. Lo shock occupazionale per la Fondazione Di Vittorio colpirà per primi «i lavoratori a termine, nell’immediato il pericolo più grande: nel 2008 furono i primi a subire la ripercussione della crisi, da allora sono aumentati di circa un terzo fino al numero di febbraio di 3 milioni 106mila.

Per gli altri la spada di Damocle è legata al termine di scadenza. Lo scorso anno le attuazioni fra marzo, aprile e maggio furono circa 850 mila; le cessazioni circa 500 mila e circa 150 mila trasformati a tempo indeterminato. Il rischio concreto – teme Fammoni – è che tutti e tre questi parametri vadano contemporaneamente in sofferenza. Ragionamento analogo può essere fatto per il lavoro in somministrazione che già a gennaio 2020 si era ridotto del 2,3%. Infine, nel lavoro autonomo, è presente un numero alto di quelli che l’Ilo definisce dependent contractor, cioè rapporti sostanzialmente dipendenti limitati ad un unico cliente/committente: in Italia si tratta di una cifra vicina fra le 300 e le 400mila persone», chiude Fammoni. Il che porta a dedurre che fra marzo e maggio sono a rischio circa 400 mila lavoratori deboli: precari e autonomi.

ALTRA CATEGORIA A RISCHIO sono i lavoratori irregolari. «Secondo l’Istat abbiamo quasi un milione di lavoratori irregolari lungo le filiere cosiddette necessarie a cui stiamo chiedendo di lavorare comunque perché non possiamo fermare l’agricoltura, non possiamo fermare alcune filiere fondamentali», denuncia il portavoce dell’Alleanza italiana dello sviluppo sostenibile (ASviS) Enrico Giovannini che chiede di «agganciarli al Reddito di emergenza per poi farli emergere e regolarizzare».

Va avanti invece il confronto fra chi cerca di stimare nel miglior modo possibile il numero di lavoratori dei settori essenziali, gli unici che dovrebbero rimanere aperti secondo il secondo Dpcm, l’elenco dei codici Ateco accettato dai sindacati dopo le polemiche per l’intervento di Confindustria sul primo elenco.

La stima dei Consulenti del lavoro parla di 7.810.000 lavoratori interessati dal blocco delle attività previsto dal provvedimento governativo del 22 marzo, pari ad una percentuale del 34,8 % mentre 6 milioni e 118 mila pari al 27,2% sarebbe occupato in settori destinati alla erogazione di servizi essenziali. Il restante 38% è impiegato in comparti potenzialmente ancora in attività: 8 milioni e 522 mila addetti.

E PROPRIO PER FAR TORNARE al lavoro questi che Confindustria – la Fondazione Sabattini ribatte alla richiesta di liquidità di Boccia sostenendo che le imprese hanno «140 miliardi di liquidità immediata» – e le altre categorie di impresa continuano a spingere perché chiedano deroghe ai Prefetti per poter produrre. Le richieste, denuncia la Cgil, sono di circa 10mila in Lombardia (3mila a Brescia e 2mila a Bergamo), ben 12mila in Veneto, 10mila in Emilia Romagna, 7mila in Toscana, 2.500 in friuli per un totale di oltre 40mila, ma con numeri in continuo aumento.

Qui va avanti la battaglia. La deroga la decide il Prefetto sentiti i sindacati: ma spesso, almeno finora, alla fine la concede.