Aveva 31 anni, gli occhi grandi e scuri e si chiamava Célica Elida Gómez Rosano. La sera del 3 gennaio 1978 stava uscendo dal suo ufficio alla Telam di Buenos Aires, la principale agenzia di notizie dell’Argentina, quando da una macchina qualcuno ha cominciato a chiamarla: «Célica, Célica ti ricordi di noi? Ci siamo conosciuti in Uruguay». Célica si è avvicinata alla macchina, a bordo tre uomini armati che l’hanno costretta a salire su una Ford Falcon senza targa.

Erano gli anni delle dittature latinoamericane e del Plan Condor, il piano di repressione del socialismo sostenuto dagli Stati uniti a causa del quale migliaia di militanti esiliati in Paesi esteri vennero catturati e uccisi. Della maggior parte di loro non si è mai più saputo nulla: i corpi sono stati fatti sparire con i cosiddetti «voli della morte». Célica, quella sera di gennaio è andata incontro allo stesso destino.

La giovane, nata in Uruguay e scappata in Argentina dopo il golpe di stato del suo Paese, collaborava con il Pcr (Partido Comunista Rivolucionario), passando messaggi provenienti da compagni che si trovavano in Europa e in Argentina ai quadri politici del partito.

Da 41 anni la sua famiglia lotta per avere giustizia e finalmente lunedì qualcuno è stato riconosciuto colpevole per il suo sequestro: Célica è una delle 43 vittime del processo al Plan Condor conclusosi due giorni fa a Roma con 24 ergastoli.

«Questa sentenza dimostra che lottare per 41 anni non è stato inutile, abbiamo lottato e ieri abbiamo vinto – ci spiega il fratello, Nestor Gomez Rosano – Mia madre ha aspettato per 20 anni il ritorno di sua figlia. È morta senza avere una risposta, ma oggi la mia famiglia festeggia. Condannare questi assassini dopo tutto questo tempo è incredibile».

È stato possibile istituire questo processo in Italia grazie al gran numero di immigrati italiani nelle terre sud americane. Come spiega Maria Paz Venturelli, «la storia di mio padre è quella di tanti italiani, la mia famiglia viene dall’Appenino modenese e sono emigrati nei primi del ’900 in una colonia nel sud del Cile, dove hanno portato la tradizione contadina italiana».

Meno comune è la storia di militanza del padre di Maria Paz, Omar Venturelli, scomparso in Cile il 4 ottobre 1973. Sacerdote sospeso per le sue battaglie a favore dei diritti umani e quadro politico del Mir (Movimento della sinistra rivoluzionaria), Omar ha lottato per i diritti delle comunità indigene dei Mapuche fino a quando non si è consegnato spontaneamente per un controllo in caserma.

«Non sappiamo esattamente cosa ne sia stato di mio padre – ci racconta con commozione Maria Paz – Abbiamo cercato di ricostruire il più possibile ciò che gli è capitato. Quello che si suppone è che mio papà sia stato consegnato al generale Stark che in quei giorni stava viaggiando nel Sud del Paese con quella che è conosciuta come “la carovana della morte”, che aveva lo scopo di insegnare ai militari le metodologie repressive più spettacolari e le torture. Per cui il passaggio della carovana era accompagnato da una serie di esecuzioni molto spettacolari».

Tra le vittime del processo figura anche un combattente di origine marchigiane, l’unico italiano nominato fra le pagine dei diari di Ernesto Che Guevara. Cresciuto in Argentina, si è addestrato a Cuba dopo aver abbracciato la causa del Che: è la storia di Luis Stamponi.

Luis ha lottato in Bolivia per tutta la vita fino alla cattura nel 1976 a Llallagua, dove è stato lungamente torturato e infine trasferito in un campo di sterminio a Buenos Aires. Da allora Luis è desaparecido.

«È necessario che lo Stato boliviano si assuma la responsabilità di aver torturato, ucciso e generato terrore nella popolazione in quegli anni. Lo Stato ancora oggi deve una spiegazione ai familiari delle vittime ed è molto importante per noi che altri Paesi, come l’Italia, riconoscano le colpe del nostro Stato», dice Nila Heredia, compagna di Luis e presidentessa della Comisión de la Verdad boliviana.

«Erano le tre di notte del 13 settembre 1974. Un gruppo di uomini armati ha forzato la porta d’ingresso del nostro appartamento di Buenos Aires e ha fatto irruzione nel nostro appartamento – ricorda Aurora Meloni – Con molta violenza hanno sequestrato mio marito Daniel e due nostri compagni che stavano da noi in attesa di ottenere il visto francese. Quella è stata l’ultima volta che li ho visti vivi». I cadaveri di Daniel Banfi, uruguaiano militante dei Tupamaros, e dei suoi due compagni vennero ritrovati alcuni giorni dopo a 159 km da Buenos Aires.

«Questo delitto è stato imputato alla Triplice A – ci dice Aurora, parte civile nel processo di Roma – ed è stato uno dei primi sequestri svolto con le modalità diventate tristemente note negli anni successivi. Mi permetto di non raccontare le condizioni in cui ho trovato i loro corpi all’obitorio, mi permetto di non raccontare quello che hanno dovuto subire. Da questa sentenza mi aspettavo quello che cerco da quella notte di settembre di 45 anni fa: giustizia. E giustizia abbiamo avuto».