Non voleva stare in carcere, questo è sicuro. Tanto che in aula, all’udienza di convalida dell’arresto per consumo e spaccio di stupefacenti, Stefano Cucchi ha raccontato al giudice Maria Inzitari di fare uso di metadone non attraverso il Sert ma acquistandolo personalmente per altre vie. «Una versione – racconta Giorgio Rocca, l’avvocato d’ufficio che ha assistito Stefano quel giorno – che potrebbe anche non essere vera. Io non lo conoscevo, l’ho visto in aula per la prima volta. Ma forse ha raccontato la storia del metadone per far capire che la sua condizione era incompatibile con il carcere». Insomma, buttarla sul drammatico per evitare la cella.

Ma allora perché Stefano avrebbe firmato per rientrare in carcere quando al pronto soccorso romano del Fatebenefratelli consigliavano un ricovero? Questa è soltanto una delle tante incongruenze che tempestano la storia di Stefano. Trentuno anni, geometra come il padre, un passato di tossicodipendenza e un percorso di recupero in comunità. Stefano è morto giovedì scorso nel reparto carcerario dell’ospedale Sandro Pertini.

È stato chiuso lì dentro per cinque giorni. Non ha mai potuto incontrare i suoi genitori, che inutilmente si sono recati davanti ai cancelli del reparto di medicina protetta per chiedere informazioni. La polizia penitenziaria continuava a dire che dovevano attendere l’autorizzazione del pm, senza spiegargli che erano loro a dover fare la richiesta. Quando finalmente capiscono e la ottengono è troppo tardi. Giovedì a mezzogiorno un carabiniere comunica che Stefano è deceduto. Quando riescono a vedere il corpo (solo da dietro un vetro)per i famigliari è uno choc: «Aveva il volto nero, come bruciato. Un occhio fuori dall’orbita e la mandibola storta», ha raccontato il padre Giovanni. Non solo. Ora ci sono anche le foto scattate dalle pompe funebri a testimoniare: sangue sulla schiena, volto tumefatto, ferite alle gambe. Chi lo ha ridotto così? E quando?

Il manifesto denunciò subito il caso Cucchi praticamente in solitudine

Stefano viene fermato nella notte tra il 15 e il 16 ottobre al parco degli Acquedotti, vicino Cinecittà. Lui è su un’auto, un suo amico su un’altra. Sono affiancati. A fermarli sono i carabinieri della compagnia di Capannelle. Stefano ha della droga: 20 grammi di hashish («ben confezionato», dice il verbale dei carabinieri) poca cocaina e quattro pasticche di ecstasy. Un quantitativo superiore alla dose per consumo personale, l’accusa è di spaccio. Stefano passa la notte nella cella di sicurezza della stazione di Tor Sapienza. Il giorno dopo, venerdì 16 ottobre, c’è la convalida. Il ragazzo spiega brevemente all’avvocato di essere tossicodipendente e che vorrebbe scontare la pena in comunità. A remargli contro ci sono alcuni precedenti penali per violenza e detenzione di arma, legati a un episodio avvenuto diversi anni fa, quando Stefano forzò un posto di blocco. In aula quel giorno c’è anche il padre. Stefano parla, cammina, ma ha «il viso gonfio», secondo il genitore. Era successo qualcosa la notte a Tor Sapienza? I carabinieri negano, anche se ammettono che Stefano si era sentito male, gli aveva detto di soffrire di epilessia.

Tant’è che avrebbero chiamato un’ambulanza. Ma lui (ed è il primo rifiuto) avrebbe preferito restare in cella di sicurezza. Tutto questo, in aula non emerge. Ma Stefano deve sembrare strano anche al giudice. Tanto che avrebbe disposto una visita medica. Il condizionale è d’obbligo, visto che all’avvocato non risulta alcun controllo medico. Eppure il ragazzo sarebbe arrivato a Regina Coeli con un certificato in tasca, che però non ne dispone il ricovero.

Ma non sta bene, Stefano. In carcere rimane solo un’ora. Anche il medico del penitenziario ritiene che siano necessari ulteriori accertamenti. Viene allora portato al pronto soccorso più vicino, quello del Fatebenefratelli, dove gli vengono fatte delle lastre. E a ragione: il ragazzo ha tre vertebre rotte. Quando è accaduto? Difficile pensare che sia successo la notte del fermo, visto che in tribunale è entrato con le sue gambe. È successo qualcosa nella cella di sicurezza del tribunale?

Impossibile dirlo per ora. Quel che è certo – e strano – è che Stefano rifiuta il ricovero. Firma per tornare in cella. Ma dura poco. Il giorno successivo, il sabato, lamenta dolori alla schiena e viene di nuovo portato al pronto soccorso. La prognosi è di 25 giorni. Per motivi organizzativi (scarso personale per il piantonamento) l’istituto carcerario chiede il ricovero al Sandro Pertini. Da lì, cinque giorni dopo, Stefano esce cadavere. Senza aver mai potuto vedere un familiare. E senza che i suoi genitori abbiano mai potuto avere informazioni sulle sue condizioni. Quando, dopo la morte, riescono a parlare con un medico ascoltano racconti surreali: «Ci hanno detto che Stefano rifiutava le cure, e che loro praticamente non l’avevano visto in faccia perché era sempre coperto dal lenzuolo».

Altra questione da chiarire: il reparto carcerario del Pertini non è completo di strumentazioni. Ad esempio, non c’è la rianimazione. Se un detenuto sta molto male viene trasferito nelle palazzine adiacenti. A quanto risulta, Stefano non si è mai mosso dal reparto carcerario.

(dal manifesto del 28 ottobre 2009)