Una indegna falsificazione storica è andata in onda il 25 aprile in prima serata su Rai 3. Massimo Gramellini nel corso dell’intervista a Walter Veltroni ha comunicato a 1.621.000 telespettatori (secondo i dati auditel) che “neanche i fratelli Cervi erano comunisti”. L’ex-dirigente del Pci non ha sentito il dovere di far notare che l’affermazione era alquanto infondata. Se una cosa del genere l’avessero detta Vespa, Del Debbio o Giordano intervistando Giorgia Meloni forse sarebbe sorta una polemica.

Pare che nulla accada se l’offesa alla memoria arriva da pulpiti “democratici”. Siamo abituati a polemizzare con le dichiarazioni della destra contro la Resistenza ma indigna assai di più che alla riscrittura della storia contribuisca anche chi ne celebra il valore. Per sostenere la giusta tesi che il 25 aprile dovrebbe essere una festa per tutti i democratici e che la Resistenza fu un movimento plurale al quale concorsero tutte le correnti dell’antifascismo (e anche molti che antifascisti non lo erano stati) non c’è bisogno di decomunistizzarla. A meno che non si abbia l’ossessione di cancellare il ruolo non secondario svolto dai comunisti nella lotta contro il fascismo e nella costruzione della democrazia in Italia.

Chiunque abbia visitato la casa-museo Cervi sa quale rapporto abbia legato la famiglia Cervi al Pci e come l’esempio dell’Ottobre sovietico avesse colpito i cuori di quei “contadini di scienza”. Finora semmai la polemica revisionista e il dibattito avevano riguardato il presunto uso propagandistico che il Pci avrebbe fatto del sacrificio dei sette martiri o strumentali ricostruzioni tese a sottolineare i dissensi tattici tra i comunisti reggiani nella clandestinità. Quella storia era diventata patrimonio comune nazionale grazie a un giornalista ex-partigiano come Italo Calvino che l’aveva raccontata sull’Unità commuovendo Calamandrei che la rilanciò con un discorso poi pubblicato nel suo Uomini e città della Resistenza. Nel 1958 Pietro Ingrao in un’editoriale sull’Unità – Il miracolo dei 7 fratelli – consigliava a Fanfani di leggere il libro di papà Cervi curato da Renato Nicolai per capire le ragioni del radicamento comunista nell’Italia Centrale.

Il comunismo, sottolineava Ingrao, non fu paracadutato dall’esterno ma nasceva dentro la storia e il protagonismo di quel mondo popolare. I Cervi erano una famiglia che era passata attraverso la predicazione socialista di Prampolini e da cattolici avevano aderito al Partito Popolare scomparso nel nulla durante il fascismo. Aldo, poi divenuto il capo politico della banda partigiana, divenne comunista in quella che veniva definita “l’università del carcere” all’inizio degli anni ’30. Quando fu scarcerato fondò una cellula clandestina del partito e una biblioteca circolante. Durante la guerra fu impiantata una tipografia clandestina dell’Unità vicino a casa Cervi.

Il prigioniero russo fuggitivo che fu accolto e si unì ai Cervi raccontò di aver capito che questi contadini erano comunisti perché lo salutarono a pugno chiuso. Come il comunismo circolasse e si organizzasse dal basso in condizioni di clandestinità lo racconta l’incontro tra i Cervi e i Sarzi, una famiglia di attori girovaghi comunisti. L’incontro tra le grandi correnti popolari dell’antifascismo – solidarismo cattolico e socialismo/comunismo – è testimoniato nella stessa famiglia Cervi. E dal loro gruppo di resistenti. Dopo i sette fratelli e il compagno Quarto, furono fucilati dai fascisti un sacerdote e un anarchico. Peccato che dalla trasmissione sia stato cancellato il collegamento previsto con Adelmo Cervi che avrebbe potuto raccontare la storia del padre Aldo e della sua famiglia e presentare il suo libro Io che conosco il tuo cuore che la ricostruisce senza alcuna retorica. La Rai e Gramellini pongano riparo.

L’autore è segretario nazionale del partito Rifondazione Comunista – Sinistra Europea