Alla fine del suo intervento a Milano, ospite del sindaco Sala, Domenico Lucano viene salutato dal pubblico con un commosso e commovente “Bella ciao”. A cui è seguito, il coro “Ora e sempre Resistenza”.Un episodio fra tanti, che mostra che vi è una Italia del “non mollare”, che non desiste e, appunto, resiste.

Ma a quella Italia si affianca e contrappone, in modo sempre più netto, un’altra parte del Paese, e si tratta non di due metà (anche se disuguali) di un tutto, ma, diciamolo, di due nazioni, che sono la dimostrazione che la patria, come ebbe a scrivere Ernest Renan nel lontano 1882 “è un plebiscito di tutti i giorni”, ossia si appartiene a una patria non perché vi si è nati, ma perché si sceglie di esserne cittadini, e la patria che scelgo io non è detto sia la stessa del mio vicino di casa o di banco o di scrivania. Si è accomunati non dal sangue, e solo in parte dalla lingua (la babele linguistica è una specie di percorso inevitabile), o dai costumi (che cambiano): si è accomunati da scelte ideali, da un “idem sentire”, per cui ci si può sentire affratellati a un pescatore senegalese o a un operaio serbo che vengono a vivere in Italia più di quanto non ci si possa riconoscere, per fare un esempio, in quel partitino di destra estrema che si è chiamato retoricamente “Fratelli d’Italia”.

Ebbene proprio la responsabile di quel partitino, Giorgia Meloni, ha testé lanciato l’ultima provocazione: invece del 25 Aprile e del 2 Giugno – feste “divisive” – scegliamo il 4 Novembre come festa nazionale, capace di unire tutti in un nuovo afflato patriottico, in quanto ricorrenza della “vittoria” nella Prima guerra mondiale. La Meloni ha scarsissima cognizione storica, perché quella guerra, che pure falciò una intera generazione di giovani italiani, non fu per nulla “nazionale”, in quanto voluta da ristrettissimi gruppi economici, e dai loro rappresentanti politici, e produsse un enorme arricchimento per i pochi, un immiserimento per i molti; e quella guerra fu combattuta proprio dai poveri, che quando non ci lasciarono la pelle, o un braccio o un occhio, tornarono a casa poveri come erano partiti, e molti furono colpiti dall’epidemia di spagnola che fece più morti della guerra. La “vittoria” del 4 novembre fu una vittoria per la Fiat, per l’Ansaldo, e gli altri padroni del vapore, e per quegli intellettuali invasati che avevano invocato la guerra come “igiene”.

“L’offensiva patriottica” di Meloni, perciò, non solo appare fuori tempo massimo, ma, dietro il mito patriottico, si schiera idealmente con quei gruppi sociali che vollero il conflitto e ne beneficiarono. Quella data, che segnò la fine del conflitto per l’Italia portatavi a rotta di collo da tre persone (il re Vittorio Emanuele III, il presidente del Consiglio Salandra, il ministro degli Esteri Sonnino, in spregio del Parlamento, tenuto chiuso), è tutt’altro che unitaria, è “divisiva” come tutte le date storiche. E credo sia un errore rispondere sostenendo che il 25 Aprile e il 2 Giugno sono date di tutti e per tutti: non lo sono, sono date in cui soltanto una parte del Paese si riconosce (sperando sia la maggioranza), e può, se non proprio con fierezza, quanto meno senza vergogna, dichiararsi “italiana”. Io non mi sento fratello di Meloni e dei suoi camerati, e se i loro cuori non vibrano alle note di “Bella ciao”, non mi dispiace affatto.

Ma dovrebbero sapere che le due date che pretenderebbero di archiviare sono quelle che definiscono il perimetro dell’Italia repubblicana, post-fascista in quanto antifascista: sono loro a chiamarsene fuori, sono loro gli stranieri in patria. Per questo è inaccettabile lo slogan della campagna dei nuovi fascisti “Non passa lo straniero”, anche se è evidente il nesso con l’attualità, e col tema migranti, i quali, implicitamente, diventano i nuovi “nemici”, gli “austriaci”, un secolo dopo la fine del conflitto. Il pot pourri tra ieri e oggi viene temerariamente aggravato dai soliti bravacci di Casa Pound, tra grottesche marce di omaggio alla tomba mussoliniana, manifestazioni irredentiste (!) a Trieste e addirittura quelle annunciate a Riejka da loro perentoriamente chiamata col toponimo di “Fiume”, strizzando l’occhio al defunto “vate” D’Annunzio: il che ha suscitato le ovvie proteste della Croazia contro il revanscismo italiano.

Avanti così! L’Unione Europea ci sta stretta? Proviamo intanto a far ridiventare l’Adriatico mare nostro. E poi, si sa, l’appetito vien mangiando… V’è forse un modo migliore di “celebrare” il centenario della guerra che sognarne un’altra?