Con la vittoria di Gabriel Boric in Cile, si chiude in bellezza per l’America latina un anno elettorale particolarmente complesso ma di certo non privo di luci.

Il 2021 non si era aperto nei migliore dei modi: il primo appuntamento elettorale, il 7 febbraio in Ecuador, si era risolto con il sorpasso al fotofinish del banchiere Guillermo Lasso sul candidato indigeno Yaku Pérez, a cui era seguita, al ballottaggio dell’11 aprile, la vittoria del candidato di destra sul «correista» Andrés Arauz, grazie anche alla scelta del «voto nullo» di una parte consistente del mondo indigeno, fortemente critica nei confronti dell’ex presidente Rafael Correa.

Ma il processo elettorale, pur condizionato dalle divisioni a sinistra, aveva celebrato l’importante affermazione del movimento Pachakutik, divenuto la seconda forza politica più importante dopo la Unión por la esperanza di Arauz e dunque in grado di condizionare l’agenda e i contenuti della politica del paese.

Ad accendere le speranze della sinistra latinoamericana, sempre l’11 aprile, era stata in Perù la vittoria a sorpresa del maestro e leader sindacale Pedro Castillo, il rappresentante dei ninguneados – tutti i nessuno del mondo rurale andino da sempre ignorati e disprezzati dalle istituzioni – grazie a cui il candidato di Perú libre avrebbe poi superato al ballottaggio del 6 giugno, malgrado inverosimili accuse di brogli, la candidata dell’estrema destra Keiko Fujimori.

Una vittoria che aveva alimentato la speranza di liberare il paese dall’eredità tossica del fujimorismo, prima che l’inguaribile vocazione golpista delle destre, insieme ai non pochi errori governativi, mettesse a dura prova il sogno di un riscatto degli ultimi.

Ma quello stesso 11 aprile, con il secondo turno delle elezioni regionali e municipali in Bolivia, aveva anche confermato la difficoltà del Movimiento al Socialismo, già duramente sconfitto al primo turno, a consolidare le proprie posizioni dopo la trionfale vittoria sulle forze golpiste del binomio Arce-Choquehuanca, complici le polemiche sorte tra i vertici del Mas e le organizzazioni di base attorno alla scelta delle candidature.

Una difficoltà riscontrata anche in Argentina dal governo Fernández, che, alle legislative del 14 novembre, pur recuperando terreno rispetto al disastroso risultato delle primarie del 12 settembre, ha comunque perso la maggioranza al Senato, evidenziando l’urgente necessità di un cambio di passo sul fronte della lotta alla povertà e alle disuguaglianze.

E non è andata benissimo neppure a Andrés Manuel López Obrador, che in Messico, alle legislative del 6 giugno, ha perso la maggioranza qualificata alla Camera dei deputati, soffrendo per la prima volta un calo, non accentuato ma significativo, di popolarità.

Ha stravinto invece in El Salvador, alle parlamentari del 28 febbraio, il governo di Nayib Bukele che, con la sua formazione politica Nuevas Ideas, ha conquistato i due terzi dei deputati in parlamento, per poi procedere, forte del controllo sul Congresso, a destituire i giudici della Corte suprema di giustizia e il procuratore generale, concentrando di fatto nelle proprie mani tutti i poteri dello Stato.

Ma se in El Salvador è ormai in atto un’inarrestabile tendenza anti-democratica, non va molto meglio in Nicaragua: la coppia Ortega-Murillo ha vinto il 7 novembre elezioni presidenziali senza storia, con sette sfidanti agli arresti, una stampa indipendente o in carcere o costretta a operare nella clandestinità e un altissimo tasso di astensione (addirittura dell’80% secondo le organizzazioni semiclandestine d’opposizione Urnas Abiertas e Observatorio Ciudadano).

A riscattare il Centroamerica dalla sua deriva autoritaria ci ha pensato però Xiomara Castro, prima donna a essere eletta presidente in Honduras. Vincendo il 28 novembre le elezioni presidenziali, e in maniera così netta da scongiurare il rischio di brogli, la moglie del deposto Manuel Zelaya ha restituito al paese la speranza di uscire dall’incubo della narcodittatura di Juan Orlando Hernández.