Ancora una volta il giorno della Diada, la festa nazionale catalana, si è trasformato in un atto politico di straordinaria importanza per la vita politica spagnola.

L’11 settembre la Catalogna celebra quella che percepisce come la sua più importante sconfitta: dopo 14 mesi di assedio, esattamente 299 anni fa, le truppe franco-spagnole guidate dal Borbone Filippo V, nipote di Luigi XIV, entrarono a Barcellona sconfiggendo le forze che volevano mettere sul trono di Madrid l’arciduca Carlo d’Asburgo. In una specie di guerra mondiale ante litteram, la Guerra di successione spagnola aveva visto Francia e Spagna lottare contro una coalizione guidata da Inghilterra e Austria per collocare sul trono lasciato libero nel 1700 dalla morte di Carlo II, della casa d’Austria, il loro delfino Filippo designato dal re malato e morente, invece di un esponente asburgico.

La ragione per cui i catalani hanno scelto questa data emblematica per la loro festa nazionale è che sotto gli austriaci le corone di Castiglia e d’Aragona (a cui apparteneva la Catalogna) erano una specie di confederazione, ciascuna con il suo sistema giuridico e un certo controllo “parlamentare” sul potere assoluto del monarca. Mentre i Borboni erano portatori di uno stato centralista alla francese che dopo il 1714 avrebbe cancellato in un solo colpo tutte le specificità politiche e giuridiche catalane. È stato solo dopo due dittature – a parte la breve parentesi della II repubblica fra il 1931 e il 1936 – che i catalani, con la costituzione del 1978, sono riusciti a recuperare una parte della loro identità. Un’identità che era stata schiacciata brutalmente durante il franchismo, quando persino parlare catalano era proibito.

Proprio sullo scivoloso concetto di “nazione” e “autonomia” si è giocata la politica catalana degli ultimi anni. Per capire perché ieri circa 1 milione 600mila persone (secondo il ministero degli interni catalano) si sono date la mano lungo 450 chilometri dal nord al sud della Catalogna al grido di «indipendenza», bisogna fare un piccolo salto indietro, fino al 2006. Quell’anno venne approvato l’Estatut: dopo un lungo processo di negoziazione favorito da un clima più aperto del primo governo Zapatero, il Parlament di Barcellona aveva approvato un nuovo statuto che rafforzava significativamente l’autonomia catalana. Un successo per tutti i catalanisti che avevano optato per la via pacifica, al contrario dei baschi, per rivendicare la propria specificità nazionale. Il passo successivo fu l’approvazione, con molti emendamenti, da parte delle Cortes di Madrid; fu infine un referendum in Catalogna che sancì il testo definitivo. Era la prima volta che la Spagna riconosceva in maniera netta i diritti della nazione catalana, pur con tutti i limiti introdotti nel testo finale. Il tutto nell’arco della costituzione, la cui opportuna ambiguità lasciava aperta la porta a un’interpretazione più aperta, dato che parla di «diritto all’autonomia delle nazionalità e delle regioni» e di tre «lingue co-ufficiali».

Ma nelle migliori storie prima o poi arriva il cattivo, che in questo caso rompe un equilibrio che si stava faticosamente costruendo di un nuovo “incastro” della Catalogna in Spagna – per usare una terminologia molto in uso fra i catalani. E ancora una volta è facile dargli un nome e un cognome: il partito popolare di Mariano Rajoy. Che si appellò alla corte costituzionale per cancellare molti degli articoli approvati e che erano fondamentali, dal punto di vista simbolico, per i catalani: soprattutto sulla lingua, sulla senyera (la bandiera catalana a strisce gialle e rosse verticali) e su alcuni ambiti di autonomia. Se la corte costituzionale in Spagna fosse costituita da giuristi puri, per quanto il tema nazionale nel paese più plurinazionale d’Europa siano ancora tabù, forse sarebbe andata diversamente. Invece i 12 membri del Tribunal Constitucional sono tutti di stretta nomina politica. E così nel 2010 il Tc finì per derogare 14 articoli dell’Estatut provocando un’ondata di proteste in Catalogna. Col risultato che il discorso politico si polarizzò, i socialisti persero il potere in Catalogna prima e a Madrid l’anno successivo, e a partire da allora si assiste a uno scontro a colpi di «Catalonia is not Spain» da un lato e «bisogna spagnolizzare i catalani», l’ormai mitica frase del ministro dell’educazione spagnolo Wert, dall’altro.

I democristiani catalani di Convergència i Unió , che hanno ripreso il potere nel 2010 dopo la parentesi di sinistra del Tripartito, hanno subito una metamorfosi. Da partito moderatamente catalanista (ma sempre con un occhio alla butxaca, cioè alla tasca, e l’altro a Madrid per tirare la corda solo fino a dove gli conveniva) dall’anno scorso si sono buttati sul carro indipendentista (con molti mal di pancia interni). Il president Artur Mas, che fino al 2012 aveva governato in minoranza con l’appoggio esterno del Pp, ruppe il patto con la destra subito dopo la massiccia manifestazione pro indipendenza proprio la Diada 2012 (si parlò di un milione di persone: neppure lo sciopero generale ha portato tanta gente in piazza nella sola Catalogna), convocando elezioni anticipate. La sua idea era di ottenere una maggioranza solida dopo aver abbracciato il progetto indipendentista. Ma il gioco non gli è funzionato: con una maggioranza ancora più fragile, ora è costretto a governare con l’appoggio di Esquerra republicana, un partito da sempre indipendentista che gli esige un prezzo alto: la convocazione di un referendum nel 2014, a 300 anni dalla mitica sconfitta, proprio l’anno in cui anche la Scozia va alle urne per chiedere la secessione dall’Inghilterra.

Nel momento in cui a Madrid governa la destra più centralista, nazionalista (spagnola) e quindi anticatalanista – dato che la salda maggioranza parlamentare di Rajoy non ha bisogno dei voti dei partiti catalani – il nazionalismo catalano è un gioco win-win per tutti. Tanto più che il governo centrale, che deve autorizzare il referendum, non lo farà mai, e per il momento il governo di Mas, anche se sta spianando la strada per una consulta, non sembra disposto a «rompere la legalità costituzionale». Parlando di nuovo stato catalano si evita accuratamente, per Mas come per Rajoy, di parlare di crisi, di corruzione (che a Barcellona colpisce tanto come a Madrid), di tagli alla sanità e all’educazione. La differenza le due capitali è che in Catalogna, a parole, si difende il servizio pubblico, ma sempre in chiave anticentralista («ci costringono ai tagli perché non ci danno quello che ci spetta»). Ma la realtà è che le scelte di dove colpiscono i tagli sono le stesse. Il tema del credito catalano rispetto al governo centrale, poi, è una questione complessa: in sostanza ha ragione Barcellona, ma l’entità del credito è soggetta ai calcoli più azzardati.

Fatto sta che mentre sul «diritto a decidere» dei catalani, e cioè sulla possibilità di esprimersi con un referendum, la stragrande maggioranza del Parlamento catalano è d’accordo (e anche l’80% dei catalani, dicono le inchieste), non è chiaro quale esattamente sarebbe la domanda: una secca «volete l’indipendenza?», propugnata dagli indipendentisti duri e puri, o una serie di possibilità più sfumate, che potrebbero includere lo status quo o un federalismo (de iure e non solo quasi de facto come è oggi). Per la prima volta nella storia quest’anno, dicono i sondaggi, gli indipendentisti sfiorerebbero il 50%. Ma una volta scremato dell’«effetto crisi» e dell’ «effetto difesa della propria identità ferita» dalla prepotenza dell’establishment di Madrid, non è chiaro quanti scommetterebbero su un «nuovo stato d’Europa» (motto della Diada 2012). Quel che è certo è che dietro il fumo della «Via Catalana» di ieri, iniziativa di una ong indipendentista appoggiata ma solo informalmente dal Govern catalano, ancora una volta si nascondono i problemi delle scuole sempre più sacrificate, degli ospedali che chiudono, di una disoccupazione galoppante e di salari sempre più bassi. Visca Catalunya.