FRANCESCO ADINOLFI
Benvenuti nel decennio terribile. Tra i dischi che restano più in mente No Hard Feelings (Acid Jazz, 2014), debutto degli inglesi New Street Adventure: qui le ballate più soffici si alternano in maniera magistrale ad irruenze white soul. Tra Paul Weller e Style Council, Curtis Mayfield e Bobby Womack. Bandshell (Flatcar/Fontana North, 2015) è l’album di debutto di Tia Brazda, splendida lounger canadese. La voce, ammiccante e fumosa, è sospinta da una band ultraswing. Soul, ska e r’n’b, i Tibbs – gruppo neo soul/mod di base ad Amsterdam – guidato dalla voce ipnotica di Elsa Bekman – debuttano con l’album Takin’ over (Record Kicks, 2016) e travolgono. Questo è il groove. As if (Warp, 2015) dei !!! (Chk Chk Chk) è un’irresistibile incursione dance punk della band californiana. Impossibile resistere alle evoluzioni vocali di Nic Offer. Iggy Pop lascia a bocca aperta con Post Pop Depression (Loma Vista, 2016), scritto, prodotto e suonato con Josh Homme. Cupo e avvolgente quasi come i primi due dischi solistici con David Bowie, appena scomparso. Occhio a Scum (Parlophone, 2017), il debutto di Rat Boy a cui collaborano anche i due Blur, Graham Coxon e Damon Albarn. Con canzoni-vignette di instabile quotidianità e gran politicità influenzate da Clash, The Streets, Ian Dury, Jamie T e dagli stessi Blur. Riecco le due ragazze scozzesi Sacred Paws. Run around the Sun (Rock Action, 2019), secondo lp, è un’ondata di pezzi influenzati da afrobeat (highlife), rock scheggiato (Vampire Weekend), fiati e ossequi a Paul Simon. Fay Hallam (voce, tastiere) è la modmother. Il suo album Propeller (Well Suspect, 2019) condensa e perfeziona anni di band precedenti e collaborazioni, tra botte di Hammond, fiati, ritmi soul. A Day in a Yellow Beat (Columbia, 2020), secondo album del britannico Yellow Days, è un sorprendente compendio di synth funk post Prince, a tratti decelerato a tratti più movimentato. Voce incredibile. Gli Sports Team sono una guitar band inglese. L’album Deep Down Happy (Island, 2020) è amabilmente caotico, esuberante, ironico; per chi ama Pulp, Blur, e Parquet Courts.

ROBERTO PECIOLA
Andando alla ricerca dei dieci album del decennio appena passato, ci siamo resi conto di quanto rock, pop e affini regalino sempre meno sorprese e qualità. È una questione oggettiva, non anagrafica. Certo lavori di alto livello, altissimo addirittura, ci sono, ma si contano sulle dita di una mano, e anche meno. Sono infatti tre i dischi che si elevano su tutti, a partire da Fear Inoculum dei Tool (Tool Dissectional/Volcano/Rca, 2019). Tredici anni di attesa non sono stati vani, e la loro miscela di metal (sempre meno), prog e sperimentazione è portata all’ennesima potenza. A seguire lo splendido ultimo capitolo dei Midlake, Antiphon (Bella Union, 2013), reminiscenze prog e folk per la formazione texana; subito dietro ecco Lonerism (Modular, 2012) degli australiani Tame Impala, quando ancora erano i paladini della nuova scena psichedelica, un album quasi perfetto. Non sfugge che i tre dischi in questione guardino a sonorità del passato, e così è anche per lavori come God’s Favorite Customer (Bella Union, 2018) di Father John Misty, che riprende temi molto Seventies, così come Beck col suo album del 2014 Morning Phase (Capitol), mentre Act V: Hymns with the Devil in Confessional (Rude, 2016) dei The Dear Hunter è puro prog pop rock. Punk e post-punk sono in grande ripresa oltremanica, e due album li rappresentano al meglio, Joy as an Act of Resistance degli inglesi Idles (Partisan, 2018) e A Hero’s Death (Partisan, 2020) dei «dubliners» Fontaines D.C. La grande scoperta del decennio sono stati gli Elder, che hanno pubblicato una serie di album e ep di qualità, tra hard rock, prog e psichedelia Seventies, culminati quest’anno con Omens (Stickman), e a chiudere la classifica, last but not least, i Queens of the Stone Age che nel 2013 hanno dato alle stampe …Like Clockwork (Matador), con uno dei brani migliori della decade, I Appear Missing. Infine una citazione extra, per lo splendido lavoro folk Tamer Animals degli Other Lives (Pias/Self) che aprì il decennio nell’aprile 2011.

MARCO DE VIDI
Cos’è successo in un decennio? Il trionfo del populismo, il razzismo, la crisi climatica, la pandemia, mentre i social ci invadono. Il rock non è più sufficiente a narrare l’Apocalisse che viene, non fosse per Chelsea Wolfe che con Abyss (Sargent House, 2015) esplora il buio. Molto più efficace l’hip hop, da Kendrick Lamar vincitore del Pulitzer con Damn (Aftermath, 2017) ai Run the Jewels, immersi come non mai nell’attualità con RTJ4 (Bmg, 2020), colonna sonora perfetta di Black Lives Matter. E M.I.A., la bad girl rifugiata dello Sri Lanka a Londra, che non ha mai smesso di raccontare quest’esperienza, come in Matangi (Interscope, 2013). «Europe Is lost, America Lost, London Lost», così canta Kate Tempest (che ora si chiama Kae) in Let Them Eat Chaos (Fiction, 2016),cercando di trovare un senso alla confusione attorno a noi. Percorrere l’oscurità, a fianco della morte, è l’intuizione preziosa di David Bowie, con il suo testamento Blackstar (Rca, 2016), mentre se andava anche il compositore islandese Johann Johannsson, capace di contenere l’intero universo in un’opera musicale con Orphée (Deutsche Grammophon, 2016). Universo che si disgrega e si sfalda attraverso le mutazioni di Arca, musicista venezuelana che esprime alla perfezione l’accelerazione scomposta, ripida e violenta che sembra pronta a travolgerci, che nell’omonimo Arca (XL, 2017) canta in spagnolo, mettendosi a nudo. O come Fka Twigs, che in Magdalene (Rough Trade, 2019) prova a ritrovare identità, realtà, corporeità. Per finire: un disco perfetto, compiuto, definitivo: Legalise Drugs and Murder degli Electric Wizard (Rise Above, 2012), posseduti dallo spirito dei Sabbath, più che mai distorti e annientatori. È giusto che finisca tutto così, con un messaggio oltremodo benaugurante per l’anno nuovo.

ANTONIO BACCIOCCHI
I’m New Here di Gil Scott-Heron (XL, 2011) è uno dei rari album che ha saputo scrivere un nuovo modo di fare blues, rendendolo moderno e attuale. Non per niente alle spalle c’è il genio musicale di Damon Albarn. Uno dei principali protagonisti della storia del rock, Iggy Pop, ha pubblicato, nel 2016, il suo miglior album post Stooges di sempre, Post Pop Depression (Caroline International) con il prezioso aiuto di Josh Homme: post-punk, blues, attitudine punk. Sublime. Il plateale, cupo, struggente e devastante commiato di David Bowie Blackstar (Rca, 2016) è il suggello a quell’opera d’arte che è stata la sua intera carriera. Kamasi Washington con il monumentale The Epic (Brainfeeder, 2015) ha riportato il jazz in classifica, lo ha rivitalizzato e fatto tornare cool. The Last Days of Oakland (Blackball, 2016) ha fatto esplodere la stella di Fantastic Negrito, tra soul, punk funk, blues, gospel. Inimitabile e travolgente. Divide and Exit (Harbinger Sound, 2014) degli Sleaford Mods è tra le proposte più fresche uscite negli ultimi anni, con un efficace e spiazzante groove rap e post-punk. Nessuno si sarebbe aspettato un ritorno così convincente degli Specials con Encore (Island, 2019), un mix modernissimo di funk, soul, reggae, dub e politica militante. Con Saturns Pattern (Parlophone, 2015) Paul Weller ha disegnato un nuovo sound che attinge da elettronica, soul e tanto altro. Riconoscibile, personalissimo, (mod)erno. In Italia Eugenio Finardi in Fibrillante (Universal, 2015) torna a lottare, a scrivere benissimo, a rappresentare al meglio la canzone d’autore militante, così come dovrebbe essere sempre. Folfiri e folfox (Universal, 2016) degli Afterhours è un doloroso e durissimo lavoro che conferma la caratura della band di Manuel Agnelli.

FLAVIO MASSARUTTO
Gli anni Dieci ci consegnano alcune linee di tendenza che si possono riassumere in dieci dischi. Buoni Maestri. Il racconto epico delle lotte per i diritti civili in quattro cd: Wadada Leo Smith Ten Freedom Summers (Cuneiform, 2012). Un grande compositore, pensatore e organizzatore di suoni omaggia l’amico Butch Morris. Musica imprendibile, inaudita, in altre parole jazz: Henry Threadgill Old Locks and Irregular Verbs (Pi, 2016). Guerriere jazz. Le nuove jazziste si impongono per autorevolezza, ampia visione, sperimentazione di nuovi linguaggi. Che raccontino storie familiari o distopie afrofuturiste sono i loro dischi quelli più consapevoli politicamente e socialmente. E il futuro sarà loro: Matana Roberts Coin Coin Chapter One: Gens de couleur libres (Constellation, 2011); Nicole Mitchell Intergalactic Beings (Fpe, 2016); Jaimie Branch Fly or Die II: Bird Dogs of Paradise (International Anthem, 2019). Musicisti di sintesi. Da New York a Los Angeles, da Chicago a Londra è un fermento di incontri e incroci, rielaborazioni della storia e fughe in avanti. Minimalismo, elettronica, musiche del mondo, e tutti i post possibili (bop, free, rock). Eleganza e raffinatezza, precisione e apertura. E quando serve la giusta cattiveria. Craig Taborn Daylight Ghosts (Ecm, 2017), Ambrose Akinmusire On the Tender Spot of Every Calloused Moment (Blue Note, 2020), Rob Mazurek Black Cube SP Return the Tides: Ascension Suite and Holy Ghost (Cuneiform, 2014), Sons of Kemet Burn (Naim, 2013). E per finire, o iniziare: il capolavoro del decennio. Il trionfo dell’hip hop, la sua maturità e la sua consacrazione. Nessuno può prescindere da questo disco, jazzofili compresi: Kendrick Lamar To Pimp a Butterfly (Universal, 2015).

STEFANO CRIPPA
Una decade interlocutoria che sarà ricordata per le celebrazioni in gran pompa e stile e vendette consumate a freddo. Come quella della disco che nel 2013 – complice il duo francese Daft Punk – si prende la rivincita su (ex) punkettari grazie a un album perfetto, Random Access Memories (Sony), pieno di citazioni, idee e grandi brani. Kendrick Lamar non è semplicemente un rapper, è molto di più, To Pimp a Butterlfy (Universal, 2015) tra riferimenti culturali black e jazz, una copertina simbolica che racconta l’America e le tensioni razziali meglio di tanti saggi, è stato forse il disco più complesso del decennio. Decade piena di dolorosi addii, ma David Bowie due giorni prima di lasciare questo mondo ci ha regalato un capolavoro: Blackstar (Rca, 2016). Anche la vecchia scuola soul si è presa una bella rivincita attraverso uno degli artisti inglesi più espressivi, Michael Kiwanuka con Love and Hate (Universal, 2016), canzoni e suoni aggiornati nel sound da Danger Mouse, mentre Cécile McLorin Salvant con Woman Child (MackAvenue, 2017) mette in mostra idee chiarissime in ambito jazz. Il pop attraverso la voce di Adele ha dimostrato con 21 e 25 (XL, 2011 e 2015) che il cantar leggero non è sinonimo di frivolezza… In Italia Mina e Fossati (SonyMusic, 2019) in coppia hanno messo in fila undici canzoni scritte come raramente accade, mentre l’outsider Paolo Benvegnù regala (purtroppo per pochi…) saggi di rock d’autore, Earth Hotel (Woodworm, 2017) indaga sull’amore e dintorni. Finalmente restituita alla musica, Loredana Bertè rinasce con un album da Oscar solo per il titolo, Libertè (Warner, 2018 ), dalla rara qualità di scrittura associata alla sua verve graffiante.

LUCIANO DEL SETTE
L’etichetta indipendente belga Crammed lancia nel 2011 il post-rock degli Amatorsky. TBC è affascinante esordio tra acustica ed elettronica, protagonista Inne Eysermans, polistrumentista dalla voce impagabile. Un anno dopo, la svizzera Rachel Hamel, alias Oscar Louise, presenta Empty House (Phénix/New Model Label), piccolo gioiello soft rock velato di jazz. Data 2103 Nuits de fourvière (Eagle Vision), omaggio a Bryan Ferry, dal memorabile concerto del 23 novembre 2013 a Lione. Lunaria, di Etta Scollo (Sonzogno/Egea, 2014), musiche sull’omonima favola di Vincenzo Consolo, ribadisce il talento dell’artista catanese, da trent’anni ad Amburgo. Siciliano anche lui, Dimartino ha finora dato il meglio di sé in Un paese ci vuole (Picicca dischi, 2015). Migranti italiani e di altri mondi, memorie bambine, feste e riti. Il 7 novembre 2016 muore Leonard Cohen, lasciando il meraviglioso, indelebile testamento di You Want it Darker (Columbia). Nel 2017 la star congolese Baloji pubblicaKinshasa Succursale (Crammed), motore potente che gira a ritmi meticci e ancestrali, rumba, jazz. Producer e genio manipolatore di cose altrui, l’austriaco Klaus Waldeck, 2108, apre la sua Atlantic Ballroom (Dope Noir), dove risuonano tango, blues, groove, easy listening. #Fake News# (Menart, 2019), decimo album dei bosniaci Dubioza Kolektiv, è una formidabile sarabanda di rock e funk, elettronica e ska, fanfare balcaniche. Infine, 2020, Sabina Sciubba e Force majeure (Goldkind), dodici brani per una performance teatrale. Leader e sola donna dei Brazilian Girls, Sabina, strepitosa contralto multilingue, si cimenta con jazz, elettronica, spartiti barocchi, romantic punk.

MARCO RANALDI
Dieci anni di dischi e di musica a volte talmente bella da far mancare il Respiro come l’omonimo album di Joe Barbieri che datato 2012 (Microcosmo Dischi) ha ancora quel sapore di romanticismo post atomico in cui viviamo e che ci fa tanto bene. Come The Young Pope di Sorrentino che ha una strepitosa e imperdibile colonna sonora firmata da Lele Marchitelli per le musiche originali (Warner, 2016). Nino Rota Orchestral Works (Decca, 2013) è un disco prezioso nel quale ci sono almeno due capolavori Le Moliere imaginaire e Rablesiana eseguiti dall’Orchestra Sinfonica di Milano Giuseppe Verdi diretta da Giuseppe Grazioli: questo è stato l’unico organico progetto discografico dedicato a Nino Rota. Diario di un maestro di Fiorenzo Carpi mai uscito su lp è dal 2014 su cd della Digit Movies: fondamentale. Di recentissima pubblicazione è invece il disco dei Fratelli Mancuso Manzama (Squilibri, 2020) perfetto in ogni equilibrio. Saltiamo al post tecno pop di Justin Timberlake che nel 2013 pubblica un doppio cd: The 20/20 Experience (Rca), da confinati. Da riascoltare è il ripristino in due cd della soundtrack di Mary Poppins (Disney, 2013). Dentro ci sono tutte le canzoni e le mirabili musiche dei fratelli Sherman con l’irripetibile voce di Julie Andrews: da malinconica assenza. Ed è una e vera L’assenza (Ala Bianca, 2013) l’ultimo disco di Enzo Jannacci , un vero tuffo al cuore. Così come Questo è amore (Pressing, 2011) ha l’ultima malinconia di Lucio Dalla con una strepitosa cover di Anema e core. Le Due Sinfonie di Leonard Bernstein sono state recentemente edite in una direzione di Christina Lindberg a capo dalla Arctic Philarmonic (Bis, 2020): esemplare.

GUIDO MICHELONE
Nella seconda metà degli anni Dieci due sono gli album jazz paradigmatici nel decorso delle sonorità a venire: The Epic (Brainfeeder, 2015) di Kamasi Washington e Your Queen is a Reptile (Impulse!, 2018) dei Sons of Kemet: il primo è un triplo debordante, con fiati, archi, cori, due batterie, strumenti sia acustici sia elettrificati, tra politica, misticismo, etnicità, nel solco di Pharoah Sanders, Sun Ra, McCoy Tyner, Alice Coltrane per un africanesimo dall’illuminante drammatica attualità. Il secondo, il capolavoro del Black British Jazz, comprende sonorità improvvisate multietniche, anche se prevale una negritudine risoluta nel coniugare diverse culture (postbop, rap, funk in primis). Sul filo della memoria, tanti cd offrono lo spaccato della plurivarietà jazzistica, a cominciare ad esempio dal canto, dove, fuori dagli States, si trova il Presents Passed (Stunt, 2014) della norvegese Veronica Mortensen, in ballad più o meno swingate, a ripercorrere vocalmente l’immaginario di grandi standard; al contrario il coevo Fresh (Adami, 2014) della francese Mina Agossi, originaria del Benin, nella dimensione cantautorale, rimarca l’eclettico specimen jazziale, magari in chiave pop e world; diverso ancora in Erzulie (Planeta Y, 2019) della giovane cubana Yilián Cañizares, anche al violino, il sapore di un’esuberanza latina virtuosisticamente capace di assorbire folk, salsa, rock, soul in un’originale forma-canzone. In questi ultimi anni Dieci c’è, nel jazz, spazio per Live at Baked Potato (Moonjune, 2020) dei Soft Machine confermando la vitalità psichedelica del prog-rock-jazz britannico; Allt Är Intet (RareNoise, 2020) degli scandinavi The End porge il lato oscuro del nordic jazz, presentando un free ruvido, con spazi lirici estemporanei; il doppio Figures (Crammed, 2020) dei belgi Aksak Maboul conferma una dirompente fusion, debitrice di Frank Zappa e Captain Beefheart. Infine dagli Usa, The Sustain of Memory (Endectomorph, 2019) di Kevin Sun rappresenta l’avanguardia newyorkese tra composizione istantanea e post-tonale, mentre il Live! (gac, 20916) dei tenoristi Scott Hamilton e Harry Allen indica la persistenza swing dai larghi momenti solistici. Extra jazz ed extra top ten la raccolta Buscadero Americana (Appaloosa, 2019) è un album che segna bei modi di rinverdire la canzone d’autore.

LUIGI ONORI
Tre artisti più che maturi e affermati testimoniano inesausta creatività e collocano il jazz italiano in un contesto internazionale. Roma di Enrico Rava (Ecm, 2019) è un eccellente recital con un quartetto «tutte stelle», tra cui Joe Lovano. In Three Concerts. Live at the Auditorium Parco della Musica (PdM, 2015) il pianista Franco D’Andrea dialoga con Dave Douglas e Han Bennink, si esibisce in solo e con il suo settetto, sempre a livelli stratosferici. I cinque cd di Cinquant’anni suonati (L’Espresso/Tuk, 2012) mostrano la poetica di Paolo Fresu in un viaggio reale e globale che unisce collaborazioni sonore, mondo e Sardegna. Giovanni Falzone, trombettista e compositore, è tra i protagonisti del decennio per partnership e progetti, ad esempio la sua vitalissima rilettura del free in Around Ornette (Parco della Musica, 2011). Antonio Apuzzo, polistrumentista, produce da anni album originalissimi, come Musiche insane (Alfa Music, 2020), una suite che unisce jazz e poesia in una lucida visione distopica. La poliedrica Maria Pia De Vito, ha realizzato tra i tanti validi progetti Core (Coração) (ViaVeneto Jazz, 2017), matrimonio felice tra Brasile e Napoli. Ada Montellanico omaggia e attualizza la figura militante di Abbey Lincoln in Abbey’s Road (Incipit, 2017). È un autentico documentario sonoro The Beat Goes On (Candid, 2014), realizzato dalla vocalist e compositrice Elisabetta Antonini: un «urlo» di libertà. Il settetto Dinamitri Jazz Folklore dà vita a una suite contemporanea, arcaica e archetipica in La società delle maschere (Rudi, 2012). La longeva Lydian Sound Orchestra, diretta da Riccardo Brazzale, si distingue per We Resist! (PdM, 2018), «un impegno a resistere al disimpegno» coniugato in splendide note tra Max Roach e Bobby Sands.

GRAZIA RITA DI FLORIO
Si è appena concluso un decennio discografico e le playlist del 2020 sono andate a rimestare tra i nostri coups de coeur. Sulle onde gravitazionali di Voodoo of the Godsent (OnU-Sound, 2011) degli African Head Charge, un concentrato di tribalismo e tecnologia fuoriusciti dal grembo generoso della creatura di Adrian Sherwood. Ora ristampato in un cofanetto di 5 cd, con i classici dal 1990 al 2011 e un titolo che ricalca la filosofia del gruppo, Drumming is a Language. Tra uno schiocco di dita e un battito d’ali, Mario Galeano e Quantic orchestrano Ondatrópica (Soundway, 2012): un cast stellare sventa ogni scabroso sospetto revivalista. Nello stesso anno, il bardo post-moderno, Baloji, è consacrato come migliore artista di nuova generazione con Kinshasa Succursale (Crammed, 2012), esplorazione etologica sulla lingua e l’identità culturale. L’afflato roots revival pervade invece la musica diafana di Inna de Yard, progetto acustico in auge con The Soul of Jamaica (ChapterTwo, 2017). Un affaire tra decani e carneadi. Come il franco-beninese, Joe Pilgrim, rivelatosi nel cerchio concentrico del reggae con Intuitions (Soul Nurse, 2015). Ancient Observer (Nonesuch, 2017) del pianista armeno Tigran Hamasyan, pone il quesito di una nuova epistemologia, sul come porsi rispetto ai materiali del passato. Senza nessun intellettualismo come i congolesi Mbongwana Star, From Kinshasa (World Circuit, 2015), o i Kasai Allstars di Beware the Fetish (Crammed , 2014), in rapporto dialogico tra tradizione/tradimento. In un campo altrettanto minato si muovono con destrezza gli Heliocentrics di A World of Masks (Soundway, 2017). Per il 2020, la scelta ricade su We Are Sent Here by History (Impulse!). Come oracoli, Shabaka Hutchings & The Ancestors meditano sulle rovine della Storia.

GUIDO FESTINESE
Il primo disco del decennio, cominciando dalla lettera A, è opera del glorioso Art Ensemble of Chicago, 2019, We Are on the Edge, sottotitolo A 50th Anniversary Celebration (Pi). Non c’è retorica celebrativa, ma un ensemble allargato a diciotto musicisti, compresa la «nostra» Silvia Bolognesi, che impartisce una lezione di «Great Black Music», con una dedica per Lester Bowie, Joseph Jarman, Malachi Favors. Sempre in territorio (grande) jazz l’inatteso tesoro archivistico del 2018 da Impulse! per John Coltrane, Both Directions at Once. The Lost Album. Per dar sponda anche alla conttemporaneità, uno dei visionari progetti di Shabaka Hutchings, che di quella stagione eredita fuoco e spessore: The Comet Is Coming, Channel the Spirit (Leaf, 2016). Il secondo decennio del 2000 s’è portato via tanta bella gente, ma un ricordo speciale va al Claudio Lolli appartato e pungente degli ultimi anni, con il capolavoro finale Il grande freddo del 2017 (La Tempesta). Uno sguardo alle musiche dal mondo del decennio porterebbe senz’altro a puntare il faro anche sul nuovo fado di Carminho, che in Maria (Warner) regala nel 2018 un disco struggente e pressoché perfetto. La perfezione del songwriting l’ha ritrovata dopo tanto zoppichio anche l’immenso Bob Dylan di Rough and Rowdy Ways (Columbia, 2020), mentre il punto d’equilibrio tra progressive rock storico e contemporaneo se lo aggiudica l’intellettuale Steven Wilson di Grace for Drowning (Kscope, 2011). Se volete immaginare una session tra i Led Zeppelin e i Deep Purple storici, andate a riascoltare i fumiganti Black Country Communion di 2 (Mascot, 2011), Glenn Hughes sugli scudi, se volete dare un’occhiata all’apocalisse mettete in conto i canadesi Godspeed You! Black Emperor di Allelujah! Don’t Bend Ascend (Constellation, 2012) o gli inglesi Archive di Axiom (Dangervisit, 2014).

SIMONA FRASCA
Fu un esame di maturità con lode per i Daft Punk, Random Access Memories (Columbia, 2013) con omaggi elegantemente riconvertiti in un viaggio nel tempo con gli abiti migliori della haute couture futuristica. Afflizione e inquietudine in Singles dei Future Islands (4AD, 2014) e il loro galoppante lirismo synth pop da novelli The Smiths (Morrissey compreso), errore madornale considerarlo un disco derivativo. All’orizzonte di Sound & Color (Rough Trade, 2015) degli Alabama Shakes emergono reminiscenze torch song e una sensualità diffusa per un album orgogliosamente black soul. Il tuareg con groove da vendere Bombino con Azel (Partisan, 2016) piazza l’amplificatore in mezzo al deserto e nasce il suo magnifico blues berbero. Di colpo il mondo fu più ricco. Compiuto contrappunto emozional-strumentale in Hot Thoughts (Matador, 2017) degli Spoon, un viaggio indie rock screziato di suoni jingle e riff evocativamente funky. Equilibrio perfetto tra mondi lontanissimi in Hush (Deutsche Grammophon, 2018) di Nora Fisher & Marnix Dorrestein; Scarlatti e il barocco illuminati da una luce nuova, con voce e soprattutto chitarre a giganteggiare. A parlare di equilibrio tornano i Calexico con The Black Light/20th Anniversary Edition (City Slang, 2018), in copertina la stessa Chevrolet per la versione estesa del seminale album del 1998, pulsazioni con pochissima voce a ritmo di suoni e spazi incommensurabili. I White Reaper di You Deserve Love (Elektra, 2019) rubano le chitarre ai Thin Lizzy, i bassi agli Strokes e la voce a Marc Bolan, un’autentica gioia garage rock: cosa desiderare di più? La conferma che il sound west coast dei Sessanta resta una lezione perenne di gusto e ricercatezza con un’inclinazione crepuscolare la si trova in Shore (Anti-, 2020) dei Fleet Foxes. Con loro il millennio si aprì con un senso incomparabile di finitezza e smarrimento. Come una predizione avvolgente e drammatica The Strokes con The New Abnormal (Rca, 2020) chiudono il decennio (con un augurio particolare per il 2020). È il segno dei tempi.

GIANLUCA DIANA
Una imprescindibile necessità di mescolare mondi apparentemente lontani, di cercare altro, di meticciarsi. Questo è l’elemento comune alla decade che si è conclusa: in ogni stile sonoro possibile si è palesata in modo più o meno dirompente, l’esigenza di una alterità artistica. Il tutto ha portato a una corposa emersione dei suoni del global south. Con l’esito di avere tra le mani una sequela di pubblicazioni entusiasmanti: ecco per voi, un decimino discografico da cui trarre spunto. Africa protagonista senza dubbio alcuno grazie ai tanti talenti espressi: dal Ghana il carismatico King Ayisoba nel 2017 ha fatto centro con 1000 Can Die (Glitterbeat), altrettanto si può dire della diva saharaui Mariem Hassan grazie al clamoroso El Aaiun Egdat (Nubenegra) del 2012, del cantante e chitarrista maliano Samba Touré con‎ Gandadiko (Glitterbeat) nel 2015 e degli ugandesi Nihiloxica con Kaloli (Crammed) uscito quest’anno. Dal territorio statunitense è giunta un’infinità di bellezza, da cui è emersa la grande jazzista afroamericana Matana Roberts con Coin Coin Chapter One: Gens de couleur libres (Constellation) del 2011, gli spettacolari alfieri dell’hill country blues North Mississippi Allstars con World Boogie is Coming (Songs of the South) del 2013, l’esplosione del genio di Fantastic Negrito, con l’album The Last Days of Oakland (Blackball Universe) nel 2016 e la classe infinita del texano Leon Bridges, che con Good Thing (Columbia) è stato il mattatore del 2018. Lo stesso ruolo l’anno successivo è stato ricoperto dai britannici The Comet Is Coming con ‎Trust in the Lifeforce of the Deep Mystery (Impulse!), mentre in questo difficile 2020, l’estro mai domo dei Matmos continua a far la differenza con The Consuming Flame: Open Exercises in Group Form (Thrill Jockey).

GUIDO MARIANI
Bon Iver con il suo album omonimo (Jagjaguwar, 2011) ha trovato l’equilibrio perfetto tra melodia e ricerca musicale. Un misto di timidezza, aggressività e talento puro, Florence Welsh con Cerimonials (Island, 2011), firmato Florence + The Machine, ha dato prova della ricchezza del suo arsenale. Dalla provincia Usa i Gaslight Anthem (Handwritten, 2012) e i Menzingers (On the Impossible Past, 2012) ci hanno ricordato che il blue collar rock è ancora vivo e ha un’anima punk. Per AM (Domino, 2013) gli Arctic Monkeys hanno cambiato pelle, portando i sobborghi di Sheffield nel west americano. Gli U2 hanno messo a nudo la loro anima in Songs of Innocence (Island, 2014), opera che andrebbe considerata un tutt’uno con Songs of Experience del 2018. L’America di ieri, raccontata con la musica di oggi: Hamilton (Atlantic, 2015), scritto e musicato da Lin-Manuel Mirando, è molto più di un musical: è una storia corale sul sogno americano. John Baizley ha visto la sua vita andare in pezzi quando il bus su cui viaggiava con la sua band, i Baroness, precipitò da un cavalcavia. Il ritorno alla vita è raccontato in Purple (Abraxan Hymns, 2015) metal, prog e psichedelia intessuti di paura e voglia di rinascita. «Molti di noi non vogliono cambiare.Ma cosa accade quando capita qualcosa di così catastrofico che ci costringe a cambiare?» è la domanda che aleggia in Skeleton Tree (Bad Seed Ltd, 2016) di Nick Cave. L’artista rievoca la morte del figlio adolescente: una struggente riflessione umana e spirituale. Abbiamo chiuso un anno crudele con un raggio di speranza: Bruce Springsteen con Letter to You (Columbia, 2020) ci dice che l’età non è solo un numero, gli anni passano e i nostri ricordi si popolano di fantasmi, ma il rock tiene accesa la fiamma.

GIROLAMO DE SIMONE
Sul filo della memoria. Con pura energia propulsiva, il grande pianista e compositore fiorentino Daniele Lombardi si dedicò all’esplorazione delle masse sonore di più pianoforti nella scia di Cecil Taylor; Costellazione seconda (Cramps, 2011) è un live registrato a Firenze nel 2010. In Piano Calling (Ishtar, 2012) Cesare Picco distilla mirabilie e incantesimi sonori d’inesausta segnatura autorale. Da Valerio Daniele giungono, con bellezza insuperata, le 7 piccole cose (Desuonatori, 2013), lavoro in grado di rammentare l’intimismo di Luciano Cilio. Gianni Lenoci, grande improvvisatore non-solo-jazz: insostituibile il suo «solo piano» intitolato a Morton Feldman (Amirani, 2013). Altro cd prezioso e «divergente» è The New Bach Image (Stradivarius, 2014) di Luca Guglielmi, sull’ipotesi – tratta da commenti d’epoca – che Bach eseguisse al clavicordo opere per violino solo, esplodendone le polifonie improvvisate. Incredibile vocalist, ma anche teorica e compositrice, di Romina Daniele occorre avere il monolitico corpus sonoro Spannung (Rdm, 2015). A cura di Valle-Santarcangelo è Musica per un anno (Mazagran, 2017) dell’indimenticato Enore Zaffiri, tra i padri dell’elettronica italiana. Ricco di sfumature intimistiche e di bel tocco, il monografico di Maurizio Baglini dedicato a Schumann, Kreisleriana, Davidsbündlertänze, Kinderszenen (Decca, 2018): capolavori pianistici densi d’affettività e reminiscenze che rinviano a Hoffmann e a Clara Wieck. Un capolavoro di memoria inconciliata è Innocence (Auand, 2019) di Luca Flores, sublime doppio con i commoventi «nastri ritrovati» del grande jazzista caro a Chet Baker. Sguardo al futuro: Federica Tranzillo e Lorenzo Pone, Napoli velata-Neapolitan Violin Sonatas (Mozarteum, 2020). Il disco comprende le rare Sonate per violino e pianoforte di Achille Longo e Giuseppe Martucci, e costituisce l’inizio di un approfondimento storico e interpretativo dedicato ad alcune figure della grande musica italiana. Prezioso e accurato il pianismo di Lorenzo Pone, e davvero godibile il fraseggio violinistico di Federica Tranzillo.

VILMO MODONI
Il senso di un bilancio complessivo dell’ultimo decennio? Condividere le emozioni che alcuni dischi hanno regalato. Iniziamo con una bomba del 2020: Terre neuve (Verycords) di Brigitte Fontain, signora francese classe 1939. Sì, avete capito bene, 81 anni. Dopo due minuti di faticoso recitativo su organo liturgico, il disco esplode tra echi Velvet, Suicide e brani sul limitare dell’industrial. Dopo la Gioventù è fantastico imbattersi nella Terza Età Sonica. Un’altra lady che ha marcato il decennio con ben cinque produzioni è Lana Del Rey. Citiamo l’opera prima del 2012, Born to Die (Polydor). Un tizio che di decenni ne ha segnati e ne segnerà ancora parecchi è David Bowie. Se n’è andato quattro anni fa non prima di regalarci due meraviglie. Scelgo The Next Day (Columbia) del 2013. Qualche eco della sua trilogia berlinese riverbera in Have You in My Wilderness (Domino), album del 2015 di Julia Holter, riuscita sintesi tra elettronica e pop. E pop segnato da un lirismo maestoso e potente è quello che hanno prodotto nel 2016 i Pavo Pavo con Young Narrator in the Breakers (Bella Union). Nel 2014 i War On Drugs danno alle stampe il loro capolavoro: Lost in the Dream (Secretly Canadian). Colpisce la purezza del suono: ampio, liquido, colmo di effetti space inusuali per un lavoro di matrice roots-rock. L’anno successivo è Sufjan Steven a svettare con Carrie & Lowell (Asthmatic Kitty), opera caratterizzata da una voce più indifesa che mai. Ma la palma del songwriting intenso e melanconico va, nel 2019, a Adrianne Lencker e ai suoi Big Thief, usciti con ben due titoli: U.F.O.F e Two Hands (4AD). Il decennio, nel 2016, ha regalato anche il ritorno di Danilo Trivelli con Abiterò su di te (Autoproduzione), piccola gemma di un cantautore che sa farsi vicino alla poesia e al succedersi fantastico delle parole.

MARIO GAMBA
La luce che brilla di più nel decennio viene da lui, da Roscoe Mitchell. Con Bells for the South Side (Ecm, 2017). Per il leader dell’Aeoc, compositore, polistrumentista (alle ance e alle percussioni) è ciò che è stata la Nona Sinfonia per Beethoven. Il culmine di una storia artistica con ulteriori proiezioni in avanti. Quattro trii si alternano e si intrecciano in una sinfonia anomala dove gli idiomi più radicali e più trascinanti entrano in scena senza negare mai l’ispirazione di un sapere che si chiama jazz. Un altro sommo che incorpora stili eurocolti ma rimane jazzman è Cecil Taylor. Nell’inedito di importanza storica At Angelica 2000 Bologna (I Dischi di Angelica, 2020) fa pure ricordare ai distratti che nella sua musica pianistica, omaggio all’improvvisazione, ci sono componenti africane, afroamericane e delle origini del jazz. Due gli album curiosi e importanti di musica contemporanea «dotta»: Orchestral and Chamber Works Vol. 1 (Stradivarius, 2018) con nove brani di Rossella Spinosa, pensatrice immaginifica, e Still, yet, and Again (Stradivarius, 2019) con quattro brani di Diana Soh, matematicamente edonista. Mancano sei album. Perché non approfittarne per servire una piccola monografia? Di chi? Di Ingrid Laubrock, sassofonista e compositrice. Tedesca spesso di stanza negli States. Tutti i suoi album sono pubblicati da Intakt. Improvvisatrice meditata e anche divertita nei duetti Kasumi (2019) con la pianista Aki Takase e Blood Moon (2020) con un’altra pianista, decisamente avantgarde, la deliziosa Kris Davis. Leader e sempre più compositrice, anche nel senso della scrittura e dell’orchestrazione, in I.L. Octet (2014), Serpentines (2016), Contemporary Chaos Practices (2018), Dreamt Twice, Twice Dreamt (2020).

CAMILLO VEGEZZI
L’album del decennio non può che essere Blackstar (Rca, 2016), il canto del cigno di David Bowie: un’opera perfetta, con cui ha rivelato il suo lato più umano dopo una vita di trasformazioni. Un candidato per prenderne il testimone, non musicalmente ma per spessore e credibilità, potrebbe essere Nick Cave, che con il capolavoro Push the Sky Away (Bad Seed Ltd, 2013) ha inaugurato un trittico di album destinato a rimanere a lungo nell’immaginario comune. Completa il podio Thurston Moore, che con Rock n Roll Consciousness (Fiction, 2017) – cinque pezzi esaltanti tra noise-rock, feedback e distorsioni – ha raggiunto la sua maturità post Sonic Youth. Nel 2012 Neneh Cherry con The Cherry Thing (Smalltown Supersounds) ha unito una vocalità emozionante a impetuose basi avant-jazz per un disco imperdibile. Divide and Exit degli Sleaford Mods (Harbinger Sounds, 2014) e The Ooz di King Krule (True Panther, 2017) hanno rappresentato il lato migliore del Regno Unito: due album in cui le giuste influenze e una buona dose di rabbia sono confluite in testi e sonorità perfette per descrivere gli anni della Brexit. Ty Segall con Freedom’s Goblin (Drag City, 2018) ha raggiunto l’apice della sua carriera, rimettendo le chitarre e la psichedelia al centro del villaggio. In ambito black music, gli A Tribe Called Quest con We Got it from Here… Thank You 4 Your Service (Epic, 2016) sono tornati per far sentire la propria voce contro la presidenza Trump, mentre The Cycle (Don Giovanni, 2020) del collettivo Mourning BLKstar è stato la colonna sonora ideale per il movimento Black Lives Matter. In Italia, nessuno come Flavio Giurato: La scomparsa di Majorana (Entry, 2015) è un album indimenticabile, dotato di un’eccezionale sensibilità poetica, musicale e letteraria.

ANDREA LANZA
Sul podio Lady Gaga e il suo Born This Way del 2011. Ipnotico e orecchiabile è il manifesto del pensiero dell’artista, un mondo attraversato da magnifici e sensuali freak alla Tod Browning. Segue Il bello d’essere brutti del 2015, il miglior parto del J-ax solista, un album che passa da melodie impegnate ad altre più leggere ma sempre con un retrogusto unico di malinconia sincera. Del 2012 è Facciamo finta che sia vero, il ritorno di Adriano Celentano con un disco, per dirla alla sua, «rock» dopo le carinerie mielose con Mina. Brani potenti con la collaborazione di Nicola Piovani, Jovanotti, Giuliano Sangiorgi, Manu Chao, Raphael Gualazzi, il percussionista indiano Trilok Gurtu e Franco Battiato. Intenso. Dello stesso anno è Born to Die di Lana Del Rey, un album dalle melodie dark, un affresco degli States crudele e disperato ritratto dalla straordinaria voce dell’artista. Del 2014 è Non so ballare della giovane Annalisa (Scarrone), il suo terzo album, il più maturo dopo gli esordi acerbi e incolore. Blackstar è del 2016 ed è l’ ultimo album di David Bowie, la pietra tombale della carriera di un artista poliedrico, il suo album più eclettico, originale in una discografia di prodotti unici e controcorrente. Per chiudere le ultime tre (straordinarie) menzioni: lo struggente Skeleton Tree di Nick Cave & The Bad Seeds (2016), il funereo You Want it Darker di Leonard Cohen (2016) e l’esistenziale Modern Vampires of the City dei Vampire Weekend (2013).