Mantenendo una tensione sottotraccia nel descrivere le tappe quotidiane di un percorso a ostacoli cui è costretto chiunque abiti nei Territori Occupati e si sposti in Israele, il cineasta palestinese Ameen Nayfeh, nato a Tulkarem nel 1988, con la sua opera prima 200 metri ha realizzato un film necessario e delicato, mostrando un amore per i personaggi e gli ambienti che attraversano, e disegnando una mappa dell’umiliazione, delle attese, delle trappole burocratiche, fino a raggiungere situazioni sconfinanti nell’assurdo, vissute dai palestinesi della Cisgiordania. Ci sono i check-point con i tornelli, il controllo dei documenti, le perquisizioni. E c’è il muro che, come un’enorme cicatrice, taglia e ricuce il paesaggio separando non solo strade e campi, ma anche famiglie. Ed è raccontando la vita di una coppia sposata, Mustafa e Salwa, con due figli, obbligata a stare in due abitazioni diverse divise dal muro, distanti quei duecento metri cui fa riferimento il titolo e collocate l’una di fronte all’altra, perché il marito non possiede (e non vuole possedere) un documento israeliano che gli permetterebbe di vivere nella casa della moglie, che Nayfeh introduce lo spettatore in un viaggio, in apparenza senza via d’uscita, lungo un giorno accompagnando il protagonista verso una meta (l’ospedale dove è stato ricoverato il figlio vittima di un incidente) che pare allontanarsi sempre più. Perché Mustafa, senza permesso valido per spostarsi, deve trovare un modo alternativo per coprire una distanza che sarebbe breve.

ECCO L’ON THE ROAD prendere forma. E Nayfeh, autore anche della sceneggiatura, fa entrare in campo dei personaggi che condividono con Mustafa minibus e automobili usati per arrivare a destinazione. Nayfeh guarda al cinema palestinese (si pensi a quello composto con attenzione e rigore politico e militante film dopo film da Rashid Masharawi, dallo straordinario cortometraggio documentario Tension a Laila’s Birthday, e Hany Abu-Assad, che prima di diventare celebre con opere quali Paradise Now e Omar diresse un documentario fondamentale sui «falsi movimenti» nei Territori Occupati, Ford Transit) e a quello iraniano che ha fatto dei mezzi di trasporto dentro i quali i personaggi si muovono un vero e proprio set e sottogenere. Come in quest’ultimo, Nayfeh espande un pre-testo, crea deviazioni di percorso, pone i personaggi di fronte a situazioni impreviste, li fa proseguire. Consegnandoli, in 200 metri, a un finale positivo, di speranza. Non prima di avere rappresentato tensioni sociali e relazioni complesse. Si parla di lavoro precario, soggetto agli stati d’umore e al ruolo di forza dei militari e dei padroni israeliani. Del desiderio di un ragazzo di trovare un’occupazione, ma soprattutto di tentare di valicare il famigerato muro. Di un rapporto che potrebbe precipitare, ma che infine viene risolto, e coinvolge un palestinese e una donna tedesca, la filmmaker Anne, che dice di avere per metà origini palestinesi ed è lì per realizzare un reportage sull’uomo che sta andando al matrimonio del cugino, ma cercando anche di provare a comprendere quella realtà («Benvenuta in Palestina», le dice Mustafa quando lei vede dei coloni israeliani lungo la strada inveire contro di loro).

IL CAOS ESPLODE nel momento in cui l’uomo scopre che Anne ha mentito ed è israeliana. Ma il suo parlare ebraico permette ai personaggi di superare un posto di blocco cruciale. Esistono sfumature e la scrittura e lo sguardo di Nayfeh le sanno cogliere e restituire nelle immagini di un film che ha istanti quasi di favola romantica nelle scene in cui Mustafa dal balcone di casa e Salwa e i figli dal loro accendono e spengono le luci in segno di saluti al termine delle giornate. Se Ali Suliman (Mustafa) è un attore dalla filmografia densa ed è presente in molto cinema palestinese e arabo dalla metà degli anni Novanta, Lana Zreik (Salwa) è un’attrice promettente che ha cominciato la sua carriera da poco più di dieci anni (tra i suoi film Il giardino di limoni, dove recita pure Suliman).