I recenti dati diffusi dall’Istat sulla crescita della disoccupazione e della precarietà, specialmente fra i giovani, chiariscono come la deregolamentazione del mercato del lavoro, che imperversa da vent’anni, ha prodotto i risultati devastanti a cui assistiamo.

Già durante i “ruggenti” anni Ottanta si era tentato intaccare le tutele dei lavoratori introdotte negli anni precedenti, ma con scarsi risultati. Si dovette aspettare il crollo del comunismo, il Trattato di Maastricht e il nuovo vento liberista degli anni Novanta per giungere a risultati concreti. Il pacchetto Treu (legge 196 del 1997), che compie ora vent’anni, costituì una svolta decisiva verso la flessibilità contrattuale: il provvedimento introdusse infatti la possibilità di utilizzare il rapporto di lavoro interinale, ampliando notevolmente i margini di applicabilità del lavoro a tempo determinato.

Alla fine degli anni Novanta il dilagare di forme di lavoro subordinato mascherate da contratti di collaborazione portò alla necessità di un’ulteriore regolamentazione normativa, la legge Biagi.

Da un lato delimitò l’ambito di applicazione dei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, dall’altro allargò ulteriormente le tipologie contrattuali «atipiche». I livelli di protezione normativa del lavoro, secondo la misura che ne dà l’Ocse, si sono via via ridotti negli anni più recenti, a seguito dell’introduzione di ulteriori livelli di flessibilità in entrata e in uscita dal mercato del lavoro.

Dapprima la riforma Fornero (la legge 92 del 2012) ha ridotto la possibilità di reintegro del lavoratore in caso di licenziamento ingiustificato. Da ultimo il Jobs act varato dal governo Renzi ha previsto sia una maggiore libertà nell’uso del contratto di lavoro a tempo determinato, sia l’abolizione di fatto dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.

I provvedimenti renziani sono il triste epilogo di una storia ventennale, segnata sia da un progressivo indebolimento della classe lavoratrice, sia, non casualmente, da una generale penalizzazione dei salari. I limiti e le contraddizioni dell’ultima stagione che abbiamo vissuto emergono con maggiore chiarezza se tentiamo un confronto con le vicende degli anni Sessanta e Settanta, quando l’allargamento dei diritti (che per il capitale sono solo “rigidità”) andava di pari passo con la crescita economica e la bassa disoccupazione.

Molti dei principi costituzionali in tema di protezione del lavoro e parità fra i sessi trovarono per la prima volta applicazione, in un contesto di espansione del reddito, stabilità dei livelli generali di occupazione e in particolare, a partire dal 1973, di crescita dell’occupazione femminile. Non mancarono certo le criticità, specialmente per i giovani e le donne, ma è anche vero che in quegli anni il tasso di disoccupazione maschile si mantenne sempre inferiore al 5%. La vivace stagione di riforme di quegli anni si aprì con la legge 1369 del 1960, che vietava l’intermediazione nelle prestazioni di lavoro. Seguì nel 1962 la legge 230, la quale fissava vincoli stringenti per la stipula di contratti a termine, stabilendo la centralità del rapporto di lavoro a tempo indeterminato.

La legge 7 del 1963 vietò il licenziamento per matrimonio, una pratica molto diffusa che costituiva un fattore discriminante nei confronti delle donne. La legge 604 del 1966 riconobbe il principio della giusta causa nei licenziamenti individuali, anticipando quanto stabilito dallo Statuto dei lavoratori del 1970. Dopo anni di lotte, nel 1969 si arrivò anche all’abolizione delle «gabbie salariali», i differenziali retributivi per area geografica introdotti nel 1945.

Nel 1975 i sindacati ottennero poi il totale adeguamento dei salari all’inflazione, una riduzione della differenza retributiva fra categorie e un’estensione della Cassa integrazione come ammortizzatore sociale dei licenziamenti.

Nel 1977 si giunse infine a una legge che stabilì la parità fra uomo e donna nell’accesso al lavoro e nella retribuzione. Un’altra epoca, si dirà. Ma lo studio del passato serve proprio a questo: a offrire termini di confronto, a dimostrare che altri scenari sono sempre possibili e a confutare i dogmi che le classi dominanti ci impongono.

Come la presunta necessità di barattare i diritti in cambio dell’occupazione e del benessere economico.