Claudio Fava aveva scritto questo testo cinque anni fa, a vent’anni dal quel buio 1992 in cui Giovanni Falcone e Paolo Borsellino furono fatti saltare in aria, a poche settimane di distanza l’uno dall’altro. Oggi che la ricorrenza è al quarto di secolo, risulta sempre bruciante, e per alcuni versi ancora più amaro. Perché nel frattempo le informazioni e i retroscena, e in qualche modo l’intera coscienza nazionale, sono cresciuti. E molti aspetti sono stati acquisiti quanto a intreccio tra criminali decisioni e responsabilità mafiose e esponenti ed apparati dello stato: connivenze e convergenze di interessi e comportamenti, che stabiliscono di fatto complicità ormai non più «inconfessabili».

Novantadue: Falcone e Borsellino, 20 anni dopo sarebbe quindi uno spettacolo da mostrare alle scuole, possibile chiave di lettura per gli studenti di quella storia recente, e fondativa dell’oggi, che ancora è tenuta ben fuori dei programmi scolastici ministeriali. A Roma lo si è visto per poche sere al Teatro biblioteca Quarticciolo, per la regia di Marcello Cotugno e con tre attori di livello, in grado non solo di avvincere gli spettatori, ma di insinuare in ciascuno la consapevolezza di una trama e di una criminosità che si allarga e fa sistema, appena sotto una fragile crosta di democrazia.

Falcone e Borsellino scoprono perfino una carica di umana simpatia sotto la coscienza tragica del lavoro che vanno compiendo, mentre smontano finte certezze e trasgressioni abissali, quasi che l’orrore su cui vanno indagando (e che avvicina anche loro alla morte, come in una tragedia classica) li renda per necessità spiritosi e sodali, in grado perfino di ridere e scherzare delle proprie umanissime debolezze, che da una birra si spingono a un piccolo sostegno superalcolico.

Perché il primo momento in cui incontriamo in scena i due magistrati, si svolge all’Asinara, dove furono segregati con le loro famiglie per scrivere al riparo da attentati la famosa requisitoria di ottomila pagine per il maxiprocesso nell’aula bunker palermitana. Ma quel primo momento di ilare alacrità è presto dissolto dal successivo, quando a Falcone fu negata la promozione a capo della procura palermitana con la scusa tutta formale che Antonino Meli aveva una maggiore anzianità di servizio, a dispetto del lavoro effettivo svolto fino a quel momento.

Lo spettacolo ha il pregio raro di scandire in tempi fulminanti il racconto, la successione della cronaca, senza che se ne perdano o impallidiscano le ragioni, gli interessi e gli snodi. In un impianto spoglio ma non «povero», nella migliore tradizione del teatro civile o politico. Merito anche degli attori, sicuri senza essere saccenti o peggio didascalici, ma sempre in grado di riempire di umanità anche le parole più dure o «minacciose» (per chi ascolta).

Filippo Dini (ormai uno degli attori migliori della sua generazione) impersona Falcone, Giovanni Moschella dà voce e tensione a Borsellino; Pierluigi Corallo, ricco dei suoi trascorsi con Castri e con Ronconi, dà vita, come in un teatro orientale, a tutti i personaggi del «cattivi» che contro i due magistrati lavoravano. Non si esce allegri dalla serata, ma certo con la consolazione di una minima chiarezza su qualche passaggio oscuro del nostro recente passato.