Sì va bene, i Lama stanno in Tibet, e Lama non l’ama nessuno. E piripò e piripà. Però, poi, quelli menavano – e avevano le mani callose. Sì, va bene, e Cossiga sui muri si scrive con la k, e vuo’ fa’ l’amerikano. Però, poi, quelli sparavano – a altezza d’uomo sparavano – e inciampavano e scivolavano e, bum, era partito il colpo. E allora, come la mettiamo? E allora, come la teniamo la piazza? Coi piripò e i piripà?

RIMOSSA LA QUESTIONE CENTRALE DEL 77,
che era quella della forza – suvvia, diciamolo: della violenza politica – rifulgono le sue aurorali intuizioni sulla fine del lavoro di fabbrica e sulla sperimentazione di pratiche per superare l’autoritarismo insito nei meccanismi di regolazione sociale. Teniamoci queste, e sbarazziamoci di quella, no, che ci vuole? Oplà. Come se quella teoria critica fosse il frutto dello studio di brillanti menti su sudate carte e non, piuttosto, la carne viva di un conflitto sociale. Che era violento. Come la sua teoria politica. Che era violenta.

L’IRRIPRODUCIBILITA’ STORICA E POLITICA DEL 77
sta nel combinato disposto di teoria e violenza. Succede nella storia dei conflitti sociali, eh. Senza ipocrisie, si può constatare con semplicità come l’uso della violenza fosse domestico presso il movimento. È certo un dato enorme, ma è enorme proprio per come sembrasse normale. È enorme per la sua eccezionale normalità.Il movimento giocò spesso la forza come modo per portare a casa una conquista, per quello specifico problema, che so, riprendersi la piazza negata o far respirare una fabbrica dove qualche capetto faceva troppo lo stronzo o rallentare e sabotare i ritmi della produzione.

SUCCEDE, PER ESEMPIO, CHE PER UN ANNO INTERO,
tutte le sante mattine, un corteo travolge i guardoni vigilanti e riporta in fabbrica, alla Magneti Marelli, gli operai licenziati. Succede, per esempio, che ronde operaie a Milano Nord (viale Monza, Turro, Gorla, Precotto, Villa San Giovanni, Sesto, Cinisello) il sabato mattina irrompono nelle fabbriche per fare applicare (anche duramente) lo sciopero degli straordinari. Forse non è elegante, ma non c’è nulla di male a ricordare la grande paura che attraversò la borghesia capitalistica italiana in quell’arco di tempo che va dal 1973 al 1977, di fronte a un comportamento operaio che era divenuto ingovernabile al profitto e alla disciplina di fabbrica, di fronte alle università che si erano trasformate in luoghi di contestazione permanente, di fronte alle piazze, ai quartieri, alle strade, alle vetrine spesso in balìa delle decisioni di una qualche assemblea. Il vero scandalo, la vera anomalia dell’autonomia operaia è la violenza.

QUANDO IL LUOGO PROPRIO DELL’AUTONOMIA OPERAIA,
la fabbrica, va in crisi, rimane la piazza. E mentre in fabbrica i comportamenti della lotta sono flessibili, muovendosi su un arco di gradualità e di scelte, legate a criteri dati dalla consapevolezza della «forza», dello stato della forza e dello scontro, in piazza la scelta è obbligata, «scriteriata»: o si è pacifici o si è violenti. Gli autonomi furono violenti. Gli autonomi «furono» la piazza. Gli autonomi resero violenta la piazza. «Quella» piazza in quel tempo. È dalla violenza della piazza che viene la violenza degli autonomi.

LA PIAZZA E’ IL LUOGO PROPRIO DELLA POLITICA
di quel tempo, dello scontro di classe di quel tempo. Non lo è più la fabbrica: la fabbrica non è più il luogo dove si forma la coscienza enorme del lavoro, non è più il luogo dello scontro. È in piazza che si gioca la politica. Non c’è un altro «spazio pubblico». Gli autonomi giocano la loro politica in piazza. Dall’altra parte, dalla parte opposta, ci sono le autoblindo. Le autoblindo presidiano le piazze. È la stessa piazza dei grandi cortei operai, delle manifestazioni democratiche. È la stessa piazza della sinistra rivoluzionaria extraparlamentare, e non è più la stessa.

LA PIAZZA dell’autonomia è proprio un’altra cosa. Non c’è alcun parallelo. Dipende dall’armamento. Gli autonomi vanno in piazza armati. Naturalmente armati. E questo è uno scandalo. Questa è l’anomalia. Una cosa mai vista prima e che mai si vedrà dopo.

TRA LA CRISI DELLA FABBRICA e l’esplodere della violenza di piazza degli autonomi la relazione è stretta. La fabbrica – il lavoro operaio – è la «forza» trattenuta, allusiva, strategia di classe, governo: nella fabbrica la forza operaia è data dalla «concentrazione». La piazza è dispersiva, è fatta di vie, vicoli, strade, corsi, slarghi. La forza della fabbrica è direttamente politica, ed è direttamente politica proprio perché è mediata e lenta: non deve applicarsi ogni dì, basta sia in potenza. La violenza della piazza è immediata, non ha allusività, è qui e ora, rapida. Si consuma tutta nell’esprimersi.

LO SPIRITO DEL TEMPO
della seconda metà degli anni Settanta, quello degli autonomi, sta tutto lì, nell’armamento. Ma rimane fuori – fino a esserne la parte preponderante – una violenza diffusa, impulsiva e compulsiva, «folle», sregolata, che era il «cuore» degli autonomi. Era il «cuore» dell’anomalia italiana. Gli assalti alle armerie – che ci furono e numerosi – sono come gli assalti ai forni: questi, come quelli, non appartengono alla storia dei movimenti operai, ma infoltiscono la storia dell’anomalia italiana.

LA FRATTURA il movimento operaio non è sul piripì e il piripò: loro, quelli delle mani callose, l’avrebbero liquidata come fecero coi radicali – maggio 1976 – a Botteghe oscure, un paio di schiaffi e via. Non perché al movimento operaio fosse estranea la violenza, loro ne erano i depositari testamentari. Perciò, quando invece gli schiaffi li presero loro – febbraio 1977 – ne rimasero basiti. La riproducibilità tecnica ’77 sta nel fiume variegato di movimenti, esperienze, associazioni, iniziative, eventi, date lungo la fine del secolo scorso e l’inizio di questo: la violenza politica è stata a volte esercitata, a volte simulata, a volte esecrata; la teoria critica ha rimescolato un po’ sostantivi e aggettivi, ma quella è rimasta. Però, teoria e espressione della forza hanno viaggiato distanti. Come fossero il lascito postumo di convergenze parallele del ’77.