I segni di vita clandestina del ’77 dentro tutti noi sono un fatto incontestabile, il ’77 è vivo, ma lotta contro di noi e perciò lo dimentichiamo. E lui ritorna.

PERCHE’ NESSUN MOVIMENTO, PRIMA E DOPO DI LUI,
riuscì a far parlare e tacere l’inconscio in modo così giusto, nessun movimento, prima e dopo di lui, fece promesse altrettanto belle e ambiziose senza poterle mantenere. Il ’77 ci ha dimostrato che il linguaggio benpensante della politica in democrazia – anche di quella sovversiva e rivoluzionaria – è prigioniero della stessa gabbia composta dalle istituzioni e dai morti viventi che le perpetuano. Ci ha detto che la lingua va liberata dalla dittatura del senso e che il potere delira. Ci ha regalato il mao-dadaismo, gli uccelli, gli indiani metropolitani, che erano tutte strategie per non morire, per difendere la vita nella sua fragile nudità, strappandoci di dosso la coperta vergognosa e sempre troppo corta dei diritti (umani, delle donne, dei bambini, dei lavoratori…).

Il 77 POI E’ DIVENTATO MARTIRE
di persecuzioni crudeli, di micro-politiche dello sterminio che hanno cercato di estirparlo da tutti i corpi e da tutte le teste a colpi di prigione e di eroina, perché se avessimo capito, quando ancora non era troppo tardi, le cose sarebbero andate diversamente e oggi avremmo forse dei problemi interessanti da risolvere invece dell’enigma dell’idiozia suicida del governo globale, dell’antropofagia cieca del capitale. Pur non avendole nominate come tali quel movimento ha posto il problema – così contemporaneo – delle energie non rinnovabili, che non sono solo quelle della natura, ma le nostre: la forza-speranza, la forza-amore, la forza-rivolta, distrutte e saccheggiate anche dalle organizzazioni militanti e dalle migliori intenzioni che arrivano vestite di non-violenza, addirittura talvolta di femminismo. Inconsapevolmente forse il ’77 ha marcato la fine del patriarcato, attraverso non solo il rifiuto del “lavoro”, ma di quella orribile menzogna maschilista che è il buon senso, ha smascherato la complicità dei rivoluzionari con l’ordine delle cose esistente, tramite il rifiuto di ogni moralismo ha rivelato, come una cartina al tornasole, la vigliaccheria atmosferica e l’ha combattuta a colpi di felicità. Ed è stato sconfitto.

ORA vive tra le righe degli articoli di questo numero speciale, nei relitti fotografici dei suoi giorni, nella memoria morta e viva, nelle parole che lo inseguono, in qualche gesto.

COME RENDERE OMAGGIO ALLA SUA VITA
prematuramente interrotta? C’è in lui molto dell’infanzia e benché questa freschezza fosse difesa e sbandierata, chissà come sarebbe cresciuto, quel movimento, se non fosse stato ucciso o chissà se come tante star solforose e poeti maledetti, non avrebbe accettato la meschinità dell’età adulta? Il rifiuto di crescere è monopolio del ’68, i cui reduci, spesso decorati, integrati e carichi di orgoglio, soffrono tutti della sindrome di Peter Pan. Il ’77 invece aveva inventato un’altra maniera per crescere senza tradire il bambino in noi, aveva portato una soluzione gaia alla disperata constatazione di Franz Fanon che citando Nietzsche affermava che la disgrazia dell’uomo è di esser stato bambino.

L’INFANZIA SOTTO IL PATRIARCATO
è in realtà la commedia senza fine dell’adulto che prova la sua superiorità intellettuale e morale sul bambino, proferendo ordini e spiegazioni unicamente funzionali a conservare e confermare il suo ruolo di oppressore, solo quando scoppia la rivolta, la tragedia si fa strada mostrando come la superiorità simbolica era in realtà garantita dalla quella fisica. Questa stessa dialettica persiste oggi nei governi e nelle loro polizie. Eppure, diceva il ’77, non c’è ragione di avvilire la vita per sottometterla, non c’è ragione di travestirsi da liberi professionisti, presidenti, ministri: possiamo vivere insieme senza maschere condividendo tutto e generando allegria. Ogni altro comunismo è impossibile.

NON C’ERA IN QUESTA PROPOSTA L’INNOCENZA FLOREALE
degli hippy né il nichilismo giustificato dei punk, c’era qualcosa difficile da nominare e che noi chiamiamo lo sciopero umano. Era un rifiuto chiaroveggente di assumersi dei ruoli distruttori della libertà propria e altrui. Anche se crescere e lavorare, come ci viene proposto nelle nostre società, sembra plausibile, in realtà è pura follia e poiché c’è nell’infanzia qualcosa di ancora refrattario alle banalità liberticide, le avanguardie e il ’77 ne traggono ispirazione (il caso di Dada è esemplare perché ha per nome i due fonemi universali della lallazione infantile). Il ’77 in realtà era nato adulto, ci mostrava nelle sue gesticolazioni circensi e nel suo gusto per la derisione, un altro modello per diventare grandi, dentro e fuori, senza tradire quel che abbiamo di più prezioso: la forza-rivolta, la forza-amore, la forza-sogno che solo noi possiamo riprodurre proteggendo lo spazio del comune, unico ossigeno per l’anima.

MA, CI AMMONIVANO IN A/TRAVERSO,
“Non esisterà uno storico, non tollereremo che esista uno storico che assolvendo una funzione maggiore del linguaggio, offrendo i suoi servizi alla lingua del potere ricostruisca i fatti, innestandosi sul nostro silenzio, silenzio ininterrotto, interminabile, rabbiosamente estraneo”. È questa estraneità che ci è familiare oggi che il linguaggio è più che mai colonizzato e carico di pericoli: questo silenzio che ci ristora.

RESTA SOLO DA DIRE OGGI COME ALLORA
che cercare di farsi includere è una strada lunga, tortuosa, minata e infestata di trappole, il terreno franoso delle pari opportunità, della discriminazione positiva, della pietà implorata che infine si trasforma lentissimamente nel dovere dei potenti di buttare le briciole ai mendicanti, non sono vie percorribili. Essere inclusi/e in un luogo che fino a ieri ci escludeva, in cui la sola differenza rispetto a prima che ci fossimo siamo noi stessi/e, in cui non siamo benvenuti/e, non siamo compresi/e, non siamo apprezzati/e e dobbiamo provare continuamente di essere conformi a ciò che ci nega è la peggior disgrazia che possa capitarci.

IL 77 CE L’HA SPIEGATO CON DOVIZIA DI PARTICOLARI e mai come oggi i suoi insegnamenti ci sono preziosi: se il potere delira non cerchiamo di farlo tornare alla ragione perché “non basta denunciare le menzogne del potere, occorre denunciare e rompere anche la verità del potere. Quando il potere dice la verità e pretende che sia naturale, noi dobbiamo denunciare quel che vi è di disumano e di assurdo in questo ordine della realtà che l’ordine del discorso riproduce e riflette, e consolida. Svelare il carattere delirante del potere.” A/traverso, febbraio 1976.