12 marzo 1977, notte. Durante tutto il giorno, in centomila, venuti da tutta l’Italia, ci siamo presi Roma. Nonostante i tentativi, decisamente molto violenti e determinati di impedircelo. Polizia , carabinieri, insomma forze dell’ordine di ogni genere, in divisa o viscidamente mescolati tra noi con travestimenti improbabili e quindi tenuti il più possibile a bada, hanno fatto veramente di tutto per fermare la nostra manifestazione nazionale contro la repressione e per riprenderci le università. Nonostante la pioggia, l’aria è acre, ancora satura di lacrimogeni, Me li sento tutti i gola e nello stomaco vuoto, insieme a tracce di limoni e benzina. Saranno quasi le undici e sto guidando “stopulmino”, un vecchio Wolkswagen targato Cartagine. Pieno di finestre e di ruggine.

Figlio dell’ultimo ferragosto passato nella borgata dello Statuario, vicino alla scuola dove insegnava Pasolini. Giorni di caldo infernale e di lurido grasso per cuscinetti mischiato con la terra dello sfascio appoggiato ai ruderi dell’acquedotto Appio Claudio e con la segatura di ferro dell’improbabile officina di Giacinto.

“Gioia e rivoluzione”. Dalla smiagolante piastra a sei volts, l’ugola esaltata di Demetrio Stratos sfoglia violentemente le pagine del calendario della rivolta.

Ho fatto il pieno di compagni e li sto riaccompagnando a casa con morbidi slalom imbarcati tra le barricate ancora fumanti, azioni recenti di autodifesa per non finire stritolati sotto le ruote dei gipponi di Kossiga. Sono accatastati alle mie spalle su quello che resta dei sedili originali e su qualche sedia da osteria assicurata con pezzi di corda. Una missione quasi impossibile. Ad ogni incrocio c’è un posto di blocco.

Con Fà e Bastio ci raccontiamo la stanchezza, non solo per gli scontri e le corse di oggi, ma quella di un periodo che dura forse da troppo. Non siamo stufi del movimento. No, quello ci appartiene ancora interamente. Vogliamo starci dentro. Solo vogliamo cambiare aria. Ci servono nuovi paesaggi per i nostri sogni. Dove leccare le ferite di questa primavera di fuoco. Le nostre parole tornano sulla voglia di campagna. Di vita insieme solo un po’ più a nord. Ma non abbiamo pazienza. Tutto e subito, come al solito. Se deve essere che sia entro domani.

Un anno dopo

24 marzo 1978, viaggiamo sull’autostrada Roma-Firenze. Sbarramento di polizia. Cercano Aldo Moro che le Br hanno rapito da pochi giorni. Noi ci scambiamo occhiate clandestine. In fissa per qualche rametto d’erba. Più avanti c’è Erwin. Il nostro compagno svizzero sta leggendo «Lotta continua» coi piedi sul cruscotto. Accenna un sorrisetto sotto il barbone. Ci costringono con le mani sul tetto della macchina. Le gambe divaricate. Spalancano il portellone e trovano due scatoloni pieni di galline. Dicono che non è quello il modo di far viaggiare gli animali, senza neanche un buco per farli respirare. Non riconosciamo l’autorità, ma hanno ragione. Erwin ci sbeffeggia.

Giorno prima dell’occupazione. Il casale d’appoggio è stracolmo. Ci siamo tutti noi della Coop Aratro coi nostri bravi certificati di residenza a Gubbio, per evitare i fogli di via. E tanti compagni arrivati da tutta Italia. Nel camino, un paiolo colmo di minestrone cuoce incustodito. Tutti trovano più interessanti le gran canne e i bottiglioni di rosso nostrale. Tra baci, chiacchere e vecchi incontri, io insisto sull’importanza di fare quello che ci pare per tutta la notte, a patto di schiodare prima dell’alba. Il 25 marzo 1978 mi sveglio prestissimo. Inizio a scuotere chi mi capita sottomano. Sacchi a pelo sigillati. L’organizzazione non ci appartiene. Roba vecchia, ricorda i gruppi. Anche per questo siamo qui. Provo con l’odore del caffè di una moka formato colonia. Una chitarra riprende a suonare. Le prime risate. C’è luce da almeno tre ore. Faremo la solita figura degli avventuristi. Ma queste cose si fanno in tanti e devo darmi pace.

Uno stralunato corteo affolla la strada bianca. Note di terra di una banda autoconvocata, spingono scatoloni sfondati, zaini e bauli scassati. Biciclette diventate carriole, stracolme di coperte. Le pentole appese al manubrio. Poche capre al guinzaglio. Le pecore le pariamo alla bisogna, cercando di anticipare le loro continue deviazioni vegetali. Ecco Monturbino. Oggi l’occupiamo! Srotoliamo lo striscione. «Coop Aratro in lotta occupa la terra». C’è anche una legge che ci fiancheggia, quella che parla di terre incolte e/o malcoltivate. Intanto Amedeo gira con la superotto. Mentre seghiamo il lucchetto della porta.

E la festa ricomincia. Si presentano anche gli ospiti non desiderati. Li annunciano fischi e accenni di slogan. C’è chi afferra due pietre per terra. Per accogliere quei tre carabinieri costretti nelle scomode divise di lana in questo tiepido fine aprile. Non somigliano a quelli che ci hanno tenuto il fiato sul collo fino a ieri. Li hanno mandati per farci desistere; ma loro sono molto più interessati a quello che c’è sotto i maglioni delle nostre compagne. E scrivono un noioso verbale umidiccio. Capita pure un nostro spiazzante cenno d’offerta. Di cacio e vino. Ma i caramba devono proseguire il giro. Una lite tra confinanti, due agnelli scomparsi. Noi li dimentichiamo in fretta, distratti dalla conta per stabilire chi stasera si prende la stanza con la vista sulla valle.

Una vita da pastori

Il nostro casale è bello, affascinante, imponente, malridotto. Con i vecchi numeri di Lc accartocciati, tamponiamo le tante fessure nei muri. I vetri rotti li ricostruiamo con brandelli di sacchi da concime. E’ primavera inoltrata ma si dorme ancora vestiti nel sacco a pelo rinforzato con ruvide coperte militari. A turno, per i più frettolosi, o per chi cede alla notte senza possibilità di trasferimento, c’è una panca da chiesa stretta e rudimentale, proprio addosso al camino.

Abbiamo dieci capre molto voraci, direi onnivore, golose perfino della sella della mia moto. Le pecore sono una trentina. In origine erano di più. Prima della sepoltura, di quelle morte in viaggio. Nel bagagliaio della cinquecento giardinetta grigio topo del nostro presidente. C’era da prevederlo. I pastori sardi di Cantiano avevano parlato chiaro: “ Se volete pagarle trentamila lire l’una, vi beccate i capi di scarto.” Quelle ancora vive, seppure male in arnese, un po’ di latte ce lo danno lo stesso. Mattina e sera. All’inizio lo buttiamo quasi tutto, ogni volta che quelle disgraziate cagano nel secchio. Poi, con l’esperienza, impariamo a mungere all’isolana, tamponando il culo con la nostra testa. Mungere le capre, invece, è come fare un rodeo. La vecchia stalla diventa la plaza. Appena entri, loro, le bestie, iniziano una rocambolesca fuga sugli zoccoli del terrore che in genere si esaurisce su in cima alle mangiatoie. A quel punto, sudato, stremato e incazzato le afferri per le corna e inizi la danza del latte. Sempre ben attento ad evitare le piccole, nere, caramelle vegetali che sfornano a decine. Seguendo i paludati consigli della Peppa, impariamo presto a fare il formaggio con il caglio naturale.

Controlliamo la temperatura con il grosso termometro di legno. Con le mani cotte e bianchicce pressiamo questa cosa calda e gommosa nei cestelli di legno. La massa ottenuta deve riposare sulle assi di legno sospese in un cantuccio tranquillo e presidiato dagli attacchi di fame. Si, perché abbiamo stabilito che si può mangiare solo la ricotta. La regola dice che la caciotta spetta solo a Mario Bruno, il cucciolo di Sandro e Giovanna, grazie ai suoi 2 anni. Tutte le forme che l’infante non ingoia per crescere saranno messe in commercio. Dopo la ricotta rimane un siero spoetizzante che, insieme ai pochi rifiuti organici che siamo in grado di produrre, diventa pastone per i maiali, altri nemici votati della nostra maremmana. E’ lei che teneramente mi tiene compagnia ogni volta che mi allontano da casa per andare a cagare in mezzo al bosco. Io infatti non ho aderito all’uso della latrina che funziona con una rete fognaria di stampo medievale. Tutti quelli che la fanno li dentro, devono rendersi disponibili, quando necessario, allo svenevole svuotamento del secchio sottostante. No grazie.

Il pane lo facciamo una volta alla settimana con il vecchio forno strappato ai rovi che, prima del nostro arrivo, avevano nascosto l’aia. E’ veramente buono e dura tanto. A parte la prima volta, quando abbiamo dimenticato il lievito e, invece del coltello, per tagliare una fetta, servivano martello e scalpello.
A parte il pane, da mangiare non c’è mai abbastanza. Chi va a Gubbio a fare la spesa, in chiusura dei mercati generali per prendere più roba possibile a poche lire, si fa sempre accompagnare da Simone, il fratello adottivo di Giovanna, arrivato quassù da Manila. Dalla sorella e dal suo compagno, ha imparato subito a lavarsi poco. Gira stracciato per i vicoli del paese raccogliendo i “bianchetti”, cicche di sigaretta che colleziona per fabbricarne delle nuove da offrire. Così conciato non è raro che riceva frequenti doni da mettere sotto i denti: panini col prosciutto, crescia e torte al formaggio. Dopo le prime “merendine”, Simone è sazio e tende a rifiutare.

Noi, con il vuoto di stomaco che non ci lascia mai, lo convinciamo, col sorriso forzato, a denti stretti, ad accettare ogni bendiddio che, appena girato l’angolo. Gli sequestriamo con la bava alla bocca. Con la fame che gira, figurarsi come potevo odiare il vecchio tacchino che, sempre all’erta, non perdeva occasione per scipparmi qualsiasi cosa commestibile avessi tra le mani, ogni volta che attraversavo l’aia. Eppure non ho avuto il cuore di partecipare alla sanguinosa battuta di caccia che, un giorno più difficile degli altri, l’ha improvvisamente fatto secco. Bastio, Lando e Adriano sono stati capaci di giustiziarlo a bruciapelo. Poco dopo, biasimandoli, li ho seguiti con lo sguardo, mentre si rincorrevano, non proprio per gioco, su e giù per le colline con la preda già scottata nella padella con le olive. Queste cose non riesco a condividerle. Al massimo la fame mi spinge a buttarmi sul pane abbrustolito condito con l’olio “Topazio”, conservato in una damigiana di almeno venti litri dove aveva deciso di tuffarsi un affamato topolino di campagna.

A scuola di agricoltura

I ripidi, sassosi trecento ettari che avvolgono Monturbino non potranno darci altro che pascolo per il nostro piccolo gregge. Una conferma che avremmo preferito tutti evitare.

Mattina presto. Il sole è ancora basso. Ha appena scavallato la collina di fronte. Come sempre, andiamo avanti senza regole precise. Chi, come me, non sta ancora armeggiando con la caffettiera o con altre pratiche agro-pastorali, casca giù dal letto per un gran tonfo secco e un acuto fuori giri da centinaia di cavalli. Dalla finestra della cucina, si vede giù verso il torrente, il vecchio Landini arancione che ci ha prestato Amedeo coricato di lato, con il muso impuntato tra le zolle. Le grandi ruote posteriori del trattore ancora girano. Corriamo tutti giù a perdifiato. Bastio è steso qualche metro più a valle. La testa è rotta. Lui ha perso i sensi. Era entrato in fissa che quel campo si poteva scassare col trattore per poi seminare l’erba medica. Avrà modo, speriamo, di raccontarlo ai dottori dell’ospedale di Perugia. Una sirena traballante ha appena lasciato l’ Eugubina per saltare tra le buche infinite della strada bianca che porta da noi. Una volta ricostruito con svariati centimetri di titanio che gli tengono insieme insieme una capoccia ancora più sballata di prima, Bastio sarà tra i primi a insistere per partecipare al corso di agricoltura biodinamica organizzato da un sindaco un po’ monaco dalle parti di Urbino.
Il nostro futuro orto se la caverà con le zappe. Niente più mezzi meccanici per far crescere le verdure la dove da decenni si è accumulato lo stabbio del nostro podere.

Arriviamo a Isola del piano alla spicciolata e con mezzi approssimativi. La mia moto, la corriera per Bastio ancora malridotto. Il resto della banda ci raggiunge con l’autostop.

Gino Girolomoni, il sindaco e l’inventore dell’iniziativa ci accoglie entusiasta e ci spiega che il corso è a pagamento. Non se ne parla nemmeno. Patti chiari. Noi ormai siamo qua. Veniamo da cento chilometri più a sud dove abbiamo occupato. Vogliamo sapere tutto su questa strana pratica agricola steineriana e ci serve anche un posto dove stazionare nei prossimi giorni. Dopo qualche trattativa e un po’ di iniziale nervosismo municipale il primo cittadino cede e ci sistema in un casale ai margini del paese. Il tam-tam fa il suo giro e le stanze si riempiono come tasche facoltose. Al mattino ascoltiamo questi singolari esseri, un po’ stregoni, provenienti dalle più diverse realtà agricole della Penisola. Parlano di “compost”, di pacciamatura, di miscele con l’acqua l’equiseto e l’ortica. Roba che devi mescolare credendoci, con l’anima appoggiata alle radici del verde broccolo nascituro. Il metodo è piuttosto esoterico ma pure divertente. E magari funziona pure. Anche se i più indolenti tra noi vanno in fissa per un certo Fukuoca, pigro contadino giapponese, che spinge ”La rivoluzione del filo di paglia”. Tipo che spargi i semi nella terra incolta e poi aspetti senza faticare. Mica male per gente come noi che il lavoro lo rifiuta.

Per il resto ce la viviamo bene insieme. Noi e tutti quelli che ogni giorno ci raggiungono col passaparola. La notte si dorme poco.

E un passatempo ripetitivo che ci diverte parecchio è riempire il maggiolino di un generoso agronomo piemontese fino a stenderlo al suolo con la carrozzeria che fa le scintille ad ogni curva. Si parte in genere quasi all’alba, così come ci si trova. Parlo dello stato psichico; ma anche l’abbigliamento: se sei in pigiama, mica ti cambi. Anzi ti diverti ancora di più a prendere l’aria con il busto fuori dal tettino a manovella. Per un qualche miracolo non incontriamo mai la pula. La meta-tormentone è sempre il porto di Fano dove un salernitano con la testa nel pallone, che si fa chiamare ”lottacontinua” ogni volta si arrampica su un traliccio da carico merci e inscena deserti, rosati, stralunati comizi, mentre noi, pur volendogli tanto bene, preferiamo guardare il mare e le sue onde che, moltiplicandosi verso Est, diventano gradualmente sempre più rosse.