Dal punto di vista dell’attuale imbarbarimento della politica italiana i comunisti berlingueriani di un tempo appaiono colti gentiluomini benintenzionati. «Perché ve la prendevate tanto con loro?» mi è capitato di sentirmi chiedere da parte di giovani amici che sono nati dopo il decennio Settanta. La domanda non è affatto stupida, e qui cerco di rispondere.

Parliamo di Bologna, dove il movimento del ’77 si espresse forse nella sua forma estrema, culturalmente provocatoria. Come tutti sanno fin dal dopoguerra la città era governata dal PCI: era amministrata bene, e negli anni Sessanta aveva visto fiorire una vita culturale ricca, partecipata, innovativa. Eppure il movimento giovanile, che dal 1975 si manifestò in forma di rottura rispetto alla politica novecentesca si scagliò particolarmente contro il PCI, e non solo contro il suo gruppo dirigente, ma anche contro la cultura media dei suoi militanti ed elettori. Ma come? si chiede il mio giovane amico nato dopo i Settanta. Non rubavano, favorivano la partecipazione popolare, appoggiavano le richieste sindacali (almeno fino a un certo punto). E allora perché ve la prendevate con loro?

IL MOVIMENTO DEL ’77 BOLOGNESE
può apparire come un’anticipazione del 1989 europeo, e per buona parte lo fu. Fu una protesta contro gli aspetti autoritari della politica comunista di osservanza sovietica: un’anticipazione dell’onda che dodici anni dopo travolse l’impero sovietico. Ma se fosse stato solamente questo, il messaggio del ’77 si sarebbe dissolto nell’anti-autoritarismo di marca neoliberale che ha finito per assorbire gran parte della spinta sociale dell’89 est-europeo.

Invece no, perché il movimento bolognese del ’77 fu anti-stalinista e anti-sovietico, ma al tempo stesso operaista e anti-lavorista. Per questo possiamo sì leggerlo come un’anticipazione dell’89, ma dobbiamo leggerlo anche come una dissociazione radicale dal neoliberismo che iniziava a manifestarsi proprio a metà degli anni ’70 e che dilagò dopo la vittoria di Thatcher e di Reagan.

Nel 1976 uno dei personaggi per me più odiosi del Pci, tal Giorgio Napolitano che all’epoca insieme a Giorgio Amendola rappresentava la corrente migliorista (noi dicevamo: stalino-riformista) del Pci, fece una dichiarazione contro l’assenteismo operaio, attribuendogli la responsabilità della crisi economica che in quel periodo travagliava il paese. Assenteismo è un neologismo che si riferiva all’abitudine di molti lavoratori di prendersi giornate di malattia per starsene a casa dal lavoro. In effetti in quel periodo le giornate di assenza per malattia raggiungevano punte impressionanti mai più raggiunte nei tristi decenni successivi.

Il movimento dava dell’assenteismo una lettura politica e culturale: rifiuto del lavoro, protesta contro l’alienazione lavorativa, autonomia di una classe operaia sempre meno disposta a riconoscersi nei panni lavoristi.

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DI LAVORO CE N’E’ SEMPRE MENO BISOGNO,
diceva la nuova generazione operaista che si stava formando in quegli anni, di cui facevo parte. Lo avevamo imparato leggendo Tronti, che nel frattempo però si era disciplinatamente ritirato nei ranghi del benpensantismo tardo-comunista, ma lo avevamo soprattutto imparato leggendo quelle stravolgenti pagine di Karl Marx che si trovano nel secondo volume dei Grundrisse. La lettura del Frammento sulle macchine fu per me uno shock filosofico decisivo: l’alfa e l’omega del rifiuto del lavoro si trova in quelle pagine.

Se vogliamo capire perché il movimento del ’77 fosse così incazzato contro il PCI dobbiamo considerare questo punto: rifiuto del lavoro per noi significava rifiuto della tristezza quotidiana della fabbrica, e soprattutto rifiuto dell’ideologia lavorista, delle giaculatorie riformiste che incitavano gli operai a essere orgogliosi del loro lavoro, sfruttato, e anche inutile, secondo quegli indiani metropolitani mao-dadaisti e forse un po’ stronzetti che eravamo noi.

Avevamo ragione? Avevamo torto? Non lo so, ma se mi guardo intorno quarant’anni dopo, direi che avevamo visto giusto. Nell’epoca della mutazione digitale, e sulla soglia della robotizzazione di massa che l’intelligenza artificiale applicata rende possibile e anzi inevitabile, mi viene spontaneo dire che avevamo indicato la sola via percorribile. Purtroppo nessuno l’ha percorsa perché i sindacati guidati dall’onesto migliorista Luciano Lama e il Partito guidato dal colto e cortese Enrico Berlinguer andarono nella direzione contraria.

«Il lavoro è un valore che non deve essere sprecato» aveva gridato Lama agli indiani che gli gridavano le peggio parolacce. E dagli anni ’80 in poi il movimento operaio scelse la strada della difesa del posto di lavoro, della difesa della composizione esistente del lavoro.

PENSIAMO ALLA GLORIOSA BATTAGLIA
che nel 1980 Enrico Berlinguer guidò a Torino contro i 25 mila licenziamenti della Fiat. Pensiamo alla gloriosa battaglia che Arthur Scargill guidò in Inghilterra alla testa dell’Union Miners contro la chiusura delle miniere di carbone.

A quel punto il movimento indiano mao-dada creativo desiderante si era dissolto per la maggior parte. Alcuni si erano intruppati in qualche formazione armata per disperazione, altri si erano iniettati eroina fino ad ammazzarsi, altri erano in carcere e altri (come me) se ne erano andati in California o in Messico a leggere Gregory Bateson e Fritjof Capra. Ma per me quelle eroiche battaglie di Berlinguer e Scargill erano battaglie di retroguardia che conducevano le truppe operaie nella direzione sbagliata. Il movimento operaio identificava la tecnologia come un pericolo da cui proteggere la propria identità, mentre avrebbe dovuto considerarla un alleato nel processo di emancipazione della vita dallo sfruttamento. Forse oggi Trump non sarebbe presidente degli Stati Uniti, se Berlinguer avesse detto con noi: è ora è ora.

LA DIREZIONE GIUSTA L’AVEVAMO DETTA NEL 1977:
È ora è ora, lavora solo un’ora. Oppure, per essere più realistici: Lavorare meno lavorare tutti. Su questo discrimine si era giocata la partita, su questo discrimine gli anti-lavoristi avevano perso la battaglia nel 1977.

Quando convocammo il convegno di settembre con il titolo: «Contro la repressione» (l’errore più grande della mia vita, credo) cademmo nell’errore fatale. Avremmo dovuto convocare il convegno dei centomila di settembre con il titolo: «Iniziamo a organizzare la fine del lavoro salariato».

Avremmo dovuto intitolarlo: «Immaginare l’epoca post-lavorista».

Avremmo arginato la crescita delle formazioni armate, e avremmo forse dato un’indicazione alle avanguardie operaie che cominciavano a sentire gli effetti della controffensiva padronale. Di lì a poco l’ideologia neo-liberale e soprattutto le tecnologie elettroniche labor-saving resero possibile l’attacco padronale contro la composizione sociale esistente. Iniziò allora, proprio alla Fiat con le isole di montaggio e con l’applicazione del flexible manufacturing system, il processo di trasformazione che quarant’anni dopo giunge al culmine. Oggi è sotto i nostri occhi lo smantellamento definitivo del lavoro industriale su scala planetaria.

È ancora attuale il «Frammento sulle macchine»? È ancora possibile pensare alla liberazione del tempo dal lavoro? Certo che lo è, oggi più che mai.

MA NON SARA’ IL MOVIMENTO DEI LAVORATORI a rendere possibile un processo di emancipazione del tempo dal lavoro, sarà la Silicon Valley Globale, forse.